SUEZ "The bones of the earth"
(2021 )
In una crepuscolare landa di confine che ricorda la brughiera all’imbrunire, stretto tra le spire avvolgenti di un ibrido di alt-folk e post-qualcosa, “The bones of the earth” segna il ritorno dei Suez a ben otto anni dal precedente “Illusion of growth”; attorno il panorama è mutato, ma il sentiero lungo il quale si muovono è rimasto lo stesso.
Quartetto originario di Cesena con lustri di esperienza sulle spalle, Luigi Battaglia, Ivan Braghittoni, Marcello Nori e Manuel Valeriani pubblicano per Cagnìn Records nove tracce che sono un piccolo prodigio di palpitante contrizione, a metà strada – se possibile – tra Joy Division e Nick Cave.
Introdotte dal giro dolente dell’opener “Hard to say” - che con passo da Codeine e mood buio tra Handsome Family e Mary Gauthier si trascina catatonica su sei minuti alla moviola -, declinate in svariate sfumature di grigio, immerse in una persistente tristezza, baciate da una scrittura ispirata e diretta, canzoni afflitte ed eleganti si susseguono in tre quarti d’ora di soave, intensa mestizia.
Lineare ed immediato, “The bones of the earth” lavora incisivo sulle chitarre e sulle atmosfere, ricamando scenari di piccola desolazione memori dei Wilco (“We are universe”), privilegiando nella prima parte atmosfere scarne e suggestive al servizio di trame esangui che congiungono National e Richmond Fontaine (“Robert”, percussiva ed esitante), ma anche Interpol e Great Lake Swimmers (“Harriet”); al pari dei conterranei Winter Dies In June, imbastiscono una narrazione coinvolgente, che procede caricando di tensione brani intrisi di malinconico abbandono, costruiti su testi spesso incentrati sul dramma dei profughi, dei migranti, dei rifugiati, degli ultimi.
Man mano che ci si addentra nel fitto di questo sottobosco umbratile, uno strisciante pathos venato di sottile nervosismo inizia ad insinuarsi tra le righe, fino a prendere il sopravvento mutando – e poi replicando – lo schema di base: “Hit the man” ha un approccio vocale volutamente ai limiti dello scomposto su un giro squadrato in minore, “Humanity is dead” si lascia trainare dal basso lungo una cadenza ossessiva infilata in una coda di distorsioni à la Willard Grant Conspiracy, mentre l’oscura “Best place” potrebbe appartenere al repertorio di David Eugene Edwards.
La chiusura è affidata al rallentamento stralunato à la Jason Molina degli otto minuti mortiferi di “Kobane”, sorta di blues dolente che arranca sofferente su isolati contrappunti mentre quasi impercettibilmente lievita verso la deflagrazione: la voce si inerpica, strappa, delira, salmodiando imperfetta su una figura arrotondata del basso ed un arpeggio ondivago, prima di incunearsi nel vortice di elettricità disturbata dei tre minuti finali. Racconta la storia di Ayse Deniz Karacagil (figura tratteggiata anche da Zerocalcare in “Kobane calling” del 2015), morta in battaglia a Raqqa il 29 maggio 2017, combattendo a fianco del popolo curdo.
Dopo, non può esserci che silenzio. (Manuel Maverna)