recensioni dischi
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LUFRAMILIA  "Migliaia di frammenti di luce"
   (2021 )

Non sempre nella complessità, nella cerebralità, nell’elaborazione risiedono gli atout che consacrano la riuscita di un disco.

Il tratto che nobilita ed innalza “Migliaia di frammenti di luce”, esordio per la torinese The Boring Label del reggino Davide Bolignano, in arte Luframilia, è la spontaneità che lo sospinge, una sincerità quasi naif al servizio di cinquanta minuti in cui riversare sé stesso e molto altro, la summa di anni spesi a scrivere per sputare infine il rospo rimasto in gola.

Invitante a partire dal delizioso artwork di copertina di Perla Giraudo, è un lavoro semplice e diretto, immediato e tenace, rigonfio di pensieri&parole. Aperto dalla cauta intro strumentale di “Eclisse”, deflagra tempestivo nei cinque minuti del punkettone sui generis di “Caos”, con mitragliate elettriche e cori à la Ska-P che mettono subito le cose in chiaro: al bando l’afflitto cantautorato intimista da voce-e-chitarra, questa è musica ruspante e viscerale condensata nella bordata up-tempo di “Resisto e non combatto”, giù per un cunicolo tanto indie da giustificare l’impiego del termine (inorridiscano pure i soloni).

Alternando ballate elettriche e rari sprazzi di ponderata docilità (la title-track, languida sul registro dei Marlene Kuntz più riflessivi), indulge a sonorità piene e rotonde ben veicolate da arrangiamenti essenziali e mirabilmente funzionali. Mentre proietta su queste quattordici tracce il suo sguardo sulla vita, sulla realtà, sull’amore, sulle cose che non vanno mai come dovrebbero (“ROAC”), Davide non perde occasione per alzare il tiro: cambia un ritmo, indovina un ritornello, incasella versi accattivanti senza scadere in ruffianerie di maniera, azzecca una melodia, picchia infaticabile in un incalzante susseguirsi di repentine impennate e di inattese oasi di quiete, talvolta reali (“Viaggio nel tempo”), altrove apparenti (“Estrema unzione”).

Spesso l’album si traduce gloriosamente in un impetuoso fluire di energia tra l’ultimo Alosi (“Nel vuoto”) e l’immarcescibile Bob Mould (“Gravitazionale”), figlio dell’urgenza casereccia di un artista coraggioso che con foga e convinzione stia cercando di stipare l’impossibile nei cassetti a disposizione. Brani squadrati condotti ben volentieri a passo di carica iniettano velocità a ravvivare l’impeto che cova instancabile sottotraccia, fra tentazioni laid-back e scatti vorticosi a scuotere le fondamenta di canzoni in perenne movimento: “Non pulite questo sangue” ha echi dei Litfiba di “Terremoto” ed una improvvisa rasoiata a smuovere il finale, “Dimenticare la polvere” soffoca nell’ennesima accelerazione il suo abbrivio sornione, “Amori telecinetici” è un gioiellino memore degli Afterhours periodo “Ballate per piccole iene”, “Apocalisse” il commiato più adatto a spegnere nella reiterazione di un mantra disilluso la veemenza finalmente placata.

Forse lì in fondo, in fondo alla strada/c’è la speranza, ma non è gloria/è vuota la stanza senza memoria/non voglio far parte più di questa razza/dai dammi la mano e adesso fuggiamo da qui/lontano da qui lontano da qui lontano da qui...

Non è una resa: forse è solo un altro inizio, la fine del buio, un nuovo giorno, il ritorno alla vita. (Manuel Maverna)