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SABINA TOLL  "Madame a dit ''oui''"
   (2021 )

E’ una sorta di bislacco cabaret dadaista quello inscenato dall’artista belga Sabina Toll (di lontane origini italiane, nata e cresciuta a Genk, dichiaratamente stregata dai programmi di Rai1 in età adolescenziale e giovanile) nelle dieci tracce di “Madame a dit “oui””, spiazzante debutto ipnotico e sovraesposto.

Una musicalità ricca e frastagliata, convogliata in brani mutevoli e cangianti, riecheggia l’eden lunatico di un piccolo universo immersivo impregnato di fantasie sghembe: vagamente lascivo, venato da un invisibile, impercettibile sentore di perdizione, l’album gigioneggia incatalogabile destreggiandosi tra brani che cambiano più volte traiettoria nello spazio di poche battute.

Emblematiche di questa ostentata inafferrabilità sia l’opener “Humdrum days”, aperta da un’aria catacombale à la Siouxsie e successivamente deviata verso esplicite suggestioni alt-country, sia la successiva “Space cadet”, passo marziale e mood incupito risolti in un algido valzer sintetico.

Nel corso di quaranta minuti di irrequieta creatività si affacciano sulla ribalta le pulsioni avant di “The marketplace” – derive free che flirtano col noise – ed i tribalismi etno di “Wong with pleasant surprises”, il surreale numero teatrale di “Le temps” e lo sketch decadente da tabarin della title-track, entrambe in francese, la seconda con irreale voce filtrata come provenisse da un’altra epoca, l’equivalente sonoro di una foto virata seppia.

La forsennata EBM di “L’uomo che viene da un altro posto” relega il suo impeto in un cunicolo electro suggellato da un beat soffocante, preludio a “La valigia”, episodio tra i più efficaci della raccolta: un quattro quarti scolpito come un blocco di marmo su una cadenza à la Sisters of Mercy si lascia guidare dall’incedere rotondo e martellante del basso, prima di spegnersi in un’oasi di nulla, poco più di un mormorio a bocca chiusa su figure ondivaghe della chitarra.

Psichedelia latu sensu, poggiata su strati di idee e stesa su arrangiamenti imprevedibili, quella di Sabina è una recita eccentrica slegata da mode e generi, libera di fluttuare in più direzioni conservando intatto il fil rouge di una insopprimibile autonomia espressiva; la babele di suoni che si agitano frenetici nel synth pop truccato di “Last woman on earth” o nell’insistito arpeggio della conclusiva “Lovebirds” sono null’altro che un compendio di arte visionaria, trasfigurata, talora ai confini col nonsense, come se Nina Hagen si esibisse ad una personale di Pipilotti Rist. (Manuel Maverna)