recensioni dischi
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COLONEL V.  "The millenary preacher"
   (2021 )

Da Vignola con furore, Paul Venturi, che già si è fatto apprezzare dal vivo nell’ambiente blues, ora dà vita al progetto Colonel V., incidendo l’album “The millenary preacher” (uscito per L’Amor Mio Non Muore Dischi), che testimonia la sua vena sperimentale, tesa ad evitare sistematicamente i cliché compositivi del blues. In fase elettrica, il suo sound si può descrivere come una particolare mistura di timbri acidi e toni chiusi. Almeno così si sente in “Rock is the rock”, o in “Rosy”, episodio dove Paul perlustra le frequenze acute nella chitarra. La voce, spesso in gate (effetto che chiude la voce in un ipotetico tubo), evoca scenari di locali sperduti nell’Arizona. Ma la cosa che salta all’orecchio in più episodi, è un generale approccio lo-fi, un po’ come quello del primissimo Bugo (“Sentimento westernato”, “Dal lofai al cisei” eccetera). In “Kind o’ livin’” siamo accolti da dei ballonzolanti accordi di banjo, con il synth che crea un’atmosfera allucinata e languida. L’assolo di chitarra è volutamente sgangherato, l’espressività di questo brano è particolarmente forte, e tutta la disperazione, quasi sempre latente, esplode a tre quarti della canzone, con gli acuti rauchi della voce. Torna il buonumore con “American stew”, un classico rock’n’roll dove i cori femminili rispondono alla voce solista, ma ad un certo punto viene intonata una specie di conta infantile, per poi ripartire in maniera folgorante. Per godere delle tipiche settime blues, dovremo attendere la titletrack, “The millenary preacher”, ma la struttura aperta rende difficile cadere nel già sentito. Con “Polinice Island” Venturi si diverte ad usare lo slide col suono distorto (forse è una resofonica elettrificata), accanto al banjo. A parte in “American Stew”, dove è presente un bassista ospite, si fa sentire l’assenza del basso, che però dà un’impressione generale ancora più sperimentale. Venendo a mancare lo strumento che mette d’accordo ritmica e armonia, la batteria risulta più ruvida, e i suoni di chitarra fanno prevalere il loro elemento noise sopra quello degli accordi. “I ain’t gonna be your dog” torna ad un frenetico rock’n’roll scatenato, mentre “Mary”, con la chitarra acustica, si avvicina allo spiritual, con tanto di cori angelici. Giustamente la musica di Colonel V. è definita post-blues, e questo piccolo ma intenso album ne è un’egregia dimostrazione. (Gilberto Ongaro)