recensioni dischi
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MØSTER  "Dust breathing"
   (2021 )

Estremo, visionario, astratto, impossibile da catalogare.

Un rebus che inghiotte mentre tenti di decifrarlo, invano.

Avanguardistico, folle e sovraesposto, gioca con jazz e sperimentazione decisa, azzardando di continuo in un riuscito tentativo di fondere elementi disparati in un magma indecifrabile.

Questo e molto altro è “Dust breathing”, quinto album in un decennio su label Hubro per il supergruppo norvegese Møster!, formato dal sassofonista Kjetil Traavik Møster, dal bassista Nikolai Hængsle (Needlepoint, Elephant9) dal chitarrista dei Motorpsycho Hans Magnus Ryan e dal batterista Kenneth Kapstad, anch’egli membro dei Motorpsycho dal 2007 al 2016.

A partire dai titoli stessi delle composizioni, a strisciare sottotraccia è un’idea di fusione che lambisce il trompe-l-oreille e che si fa strada prepotentemente assumendo valenza concettuale in sei episodi inafferrabili e serratissimi: brani ostinatamente ipercinetici sfrecciano a rotta di collo lungo un percorso minato, disseminato di trucchi, lastricato di svariate asperità, reso vieppiù complesso dall’insistita ricerca di ingorghi sonici a saturare materiale eterogeneo dalle molte sfaccettature.

Largamente incentrato sulle dinamiche e sorretto sia dal forsennato tour-de-force della batteria, sia da un virtuosismo mai fine a sé stesso (in realtà armonizzato ed integrato in un milieu stordente), l’album si apre sui quasi quattordici minuti ubriacanti di “The bonfire, the sun”, impasto di progressive, jazz, contemporanea e neoclassica in incessante evoluzione, contorsione spiazzante che vaga in molteplici direzioni senza un tema portante a condizionarne lo sviluppo.

I sette minuti che seguono rappresentano una sorta di interludio che ridisegna il quadro: “Wasteful tendensities” è una cavalcata up-tempo à la Battles, giocata sulla modulazione di un riff martellante, contraltare alla quiete attendista di “Ausculptation”, dove le figure apparentemente scomposte del sax implodono su loro stesse in un pastiche che coniuga istanze free e perfino tracce di post-rock di prima generazione, in una destrutturazione fra Tortoise, For Carnation e Don Caballero filtrata attraverso il prisma dei Naked City.

La seconda metà dell’album è interamente affidata a “Organ of bodies”, mini-suite tripartita fra suggestioni cameristiche e accenni di drone-music (“Blightness”), escalation dissonanti ed improvvise accelerazioni (“Tentactility”), contaminazioni digradanti verso un’accessibilità mai ammiccante nè compiaciuta (“Palpatience”).

Entusiasmante talora, altrove criptico e ostico, sempre e comunque espressione di un’arte multiforme offerta in una veste lucidamente off. (Manuel Maverna)