recensioni dischi
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MIKE OLDFIELD  "Amarok"
   (1990 )

Ci sono dischi che sono amati solo ed esclusivamente dai fans dell'artista, per una semplice ragione: nessuno altro ha potuto ascoltarli. D'altronde, quando Mike Oldfield si mise a comporre ''Amarok'', non aveva in testa il facile consumo, anzi. Spinto, quasi costretto dalla Virgin - che tanto fece per lui a inizio carriera, ma che tanto gli chiese in cambio - a fare roba solo commerciale, un anno dopo quell'"Earth moving" che era di sole canzoni cantate (bene ma non benissimo), e con solo due dischi da fare prima di liberarsi dal contratto, decise di andare, appunto, dalla parte opposta. "Amarok" è roba per palati forti, 60 minuti strumentali nei quali Mike nostro non concesse nemmeno un appiglio per un eventuale estratto da singolo o da video, tanto che si trattava di una unica traccia (al massimo divisa tra side A e side B come andava all'epoca) priva anche di quegli "excerpts" che avevano permesso una commercializzazione dei vecchi album prog anni '70. Al netto di questo, e del concorso che all'epoca venne lanciato (c'era un messaggio segreto, un codice morse dove si mandava a fare in [omissis] il boss Virgin Richard Branson), l'album è diventato una specie di vessillo degli oldfieldiani duri e puri, quelli amanti delle lunghe suite e che non avevano apprezzato più di tanto le ''Moonlight shadow'' e limitrofe. Che piacevano a tutti, ma che appunto erano una virata troppo easy. "Amarok" è un mischione di tremila generi, quattromila strumenti e cinquemila diverse melodie. Inaffrontabile e meraviglioso, meraviglioso e inaffrontabile. D'altronde lo diceva pure lui, nelle note di copertina. "Questo disco può essere dannoso per gli stupidi dalle orecchie foderate. Se soffrite di questa condizione, consultate immediatamente il medico". Fate vobis, tutto qua: diciamo che se l'obiettivo era quello di farsi dare il foglio di via dall'etichetta, missione compiuta. (Enrico Faggiano)