BELVAS "Roccen"
(2021 )
Di fronte al termine desueto e vetusto inorridiscano pure penne fini, critici, personaggi austeri ed anche Les Fleurs Des Maladives (che ci hanno scritto una canzone), ma questo è proprio un gran bel disco indie.
Per essere chiari, già la scelta di partenza è così spavaldamente indie: “Roccen” è un sovrabbondante debutto autoprodotto (peraltro molto ben calibrato: ascoltare – prego – i suoni di “Ferite” o di “Disco B”) che mette in fila addirittura quindici pezzi per un totale – udite udite – di settantuno minuti di musica.
Alla faccia dell’ambizione, alla faccia del senso della misura, si direbbe: eppure non stancano mai, mentre continuano a martellare, inventare, sorprendere.
Dentro il calderone finisce tutto il campionario di cui un disco indie si pasce: è storto, disallineato, fuori scala, spesso sopra le righe. Testi sbilenchi e spinosi (“Piacere è dolore”), canto indisciplinato (“Niente dentro me”), ritmi sghembi, insistite divagazioni che rendono pressochè impossibile – che bello! – pronosticare cosa accadrà nel prossimo pezzo: insomma, lo spettacolo d’arte varia che ci si aspetta dall’indie, no?
L’andazzo generale è chiaro: registrazione in presa diretta, sonorità corpose al servizio di una visceralità sovente cattivella ed elettrica senza nemmeno l’ombra di una tastierina, declinata in brani che spaziano in molteplici direzioni sempre mantenendo a fuoco una sostanziale monellaggine di fondo.
I discoli responsabili di cotanto indie sono i Belvas, trio della provincia di Como nato nel 2018 e formato oggi dal batterista Claudio Palo, unico rimasto della line-up originaria, dal bassista e cantante Manuel Dall’Oca e dal chitarrista Paolo Rosato. Afterhours e Verdena i primi papabili riferimenti, passando per schegge stravolte di blues sudista vagamente slabbrato (“Spaziale”), ballate sconnesse, viaggi allucinati tra meandri post e derive psych (l’autoreferenziale “Belvas” in apertura sarebbe stata divinamente tra le labbra di Manuel Agnelli ai tempi di “Germi”) in un milieu dove ogni disobbedienza al canone è ben accetta: le evoluzioni chitarristiche di “Malattia II” o la sberla à la Sick Tamburo di “A fondo Billy”, l’arpeggio sfuggente e languido à la Ronin de “La Morricone”, il grunge feroce di “Pink boy” o il pop da Cure di “Volare soli”.
“Real X” in chiusura è un rallentamento dolce e triste, quasi sette minuti accoccolati attorno ad un giro jazzy strumentale che ruota su sé stesso senza arrivare a nulla, ma lo facevano pure i Pavement, quindi va bene così. In fondo, anche questo è così indie. (Manuel Maverna)