IZZY & THE BLACK TREES "Trust no one"
(2020 )
Quello che si agita rabbioso e cattivello nelle otto tracce di “Trust no one” - esordio lungo per i polacchi Izzy And The Black Trees su label Artena Krzyku ad un anno e poco più dall’ep di debutto – è un garage-rock sporco e ruvido, ispido e fragoroso, decisamente tradizionale nell’impostazione, ma non per questo meno efficace.
Fronteggiato dalla bislacca presenza scenica di Izabela Izzy Rekowska, improbabile vestale che intona il suo peana mentre i tre accoliti – Mariusz Dojs, Lukasz Mazurowski, Mateusz Pawlukiewicz - macinano come schiacciasassi una miscela di elettricità disturbata e ritmi serrati, il quartetto infila una sequenza ininterrotta di pezzi in apparenza squadrati e pestoni, ma in realtà scossi da più di un’idea su come mutare il corso degli eventi verso esiti inattesi.
E alla fine, ciò che ti rivolta come un calzino e ti stende ad asciugare è il ricorso insistito ad un linguaggio antico come il mondo, ma ancora capace di scuotere le fondamenta del baraccone e di farlo tremare come e quando vuole.
C’è qualcosa di sorprendente in questo focoso, frenetico bailamme, qualcosa che non ti aspetti eppure striscia in profondità, oltre le pulsioni garage lasciate sul sentiero come briciole di Pollicino: ci sono trucchi furbetti per ammaliare l’uditorio, continue deviazioni dalla strada maestra che puntano ad anfratti sperduti del sottobosco rock, schegge sparse ad arte in un caleidoscopio di influenze e rimandi, tra il post-punk insidioso di “Scream sea lions” (dove Izzy ricorda Siouxsie) e le suggestioni Madchester del singolo “Picasso’s octopuss”.
La frenesia schizoide che apre “Mr. President” si scioglie ben presto in una ballata che non può non ricordare Patti Smith, mentre la cadenza ciondolante di “King of gardens” è quasi un fosco blues, sbavato e slabbrato; altrove, sassate stordenti che rievocano indifferentemente Stooges e Not Moving (“After dark”, “Trust no one”), o incursioni in territori di confine, come nel passo infido di “Strangers allow”, prima percussiva e poi dilaniata da accenti noise, marcata da un sax à la Morphine su un’aria notturna e fumosa, preludio alla chiusura dimessa di “Kite dancer”, desolata e indolente.
Il mood si conserva ovunque tosto e granitico, teso ed incombente. Album pregevolmente scritto ed ancor meglio architettato, propone brani vigorosi e incisivi che non possono non lasciare riaffiorare una certa nostalgia del tempo che fu, ma che sanno muoversi anche fuori dal coro disseminando piccole gemme lungo un percorso non sempre lineare. (Manuel Maverna)