WILLIAM BASINSKI "Lamentations"
(2020 )
La tecnica del loop, quella di prendere un frammento musicale e ripeterlo all’infinito, può dare esiti diversi. Primo: il materiale sonoro della selezione scelta si rafforza con la sua moltiplicazione. Secondo: si indebolisce, assumendo funzione parossistica, o “rivelatrice” di un secondo significato che trascende l’originale. Infine, terza opzione, diventa solo un’ossessione che svuota i sentimenti dell’ascoltatore, restando difficile da ascoltare fino alla fine. Dipende. William Basinski, nel suo nuovo lavoro “Lamentations” (appena uscito per Temporary Residence Records), utilizza nastri di registrazioni risalenti al 1979, rimaneggiandoli con le tecniche attuali. Alcune tracce producono il primo grandioso effetto, altre il magico secondo, altre ahimè il terzo, come “Passio”. Si tratta di un vento ottenuto con dei disturbi, ma dura 6’21”, ed è arduo capire se rilassarsi, spaventarsi o intripparsi. Procediamo in ordine di forza (è una classifica personale eh). Ci sono poi “For whom the bell tolls”, “Silent spring” e “Transfiguration” che sono accostabili alla drone music, data la loro estrema staticità. Poi c’è “Punch and Judy”, più efficace nella paura, ma non ancora trascendente: il loop è inquietante di suo, e tale resta fino alla fine. Consapevole del potenziale “fastidio” ossessivo di queste operazioni, Basinski intitola una delle tracce più dispettose “Please, this shit has got to stop”. C’è un estratto di un soprano, tagliato di netto di proposito, compare e scompare in maniera storta. E verso la fine rimaniamo solo con i disturbi magnetici. Salendo ancora di posizione, troviamo la conclusione, “Fin”, e “Paradise lost”. Durano poco più di un minuto ma già bastano ad accendere il mistero. In “Paradise lost” sentiamo poche note di archi, però sotto il rumore di fondo ci sono nascosti suoni e rumori indecifrabili. L’entusiasmo sale ancora di più con “Tear vial”, che starebbe benissimo in un video vaporwave, tale è la forza evocativa dei suoi suoni deformati dal passato. Sul podio, al terzo posto “The wheel of fortune”, che rientra a pieno titolo nel secondo effetto. Il loop scelto è una progressione armonica che di per sé sarebbe felice, gioiosa. Ma la sua ripetizione le dà un’accezione onirica mesmerizzante. Sembra che dietro il sorriso dei suoni ci sia qualcosa che non va, che non si svela mai. Al secondo posto la lunga “All these too, I, I love” (11’07”). Un estratto orchestrale d’opera, e un soprano dal tono sereno. Sembra una continua conclusione, che però non si vuole smorzare. Nel lentissimo sfumato finale, sembra che si sollevi da terra tutto il palco, compresi sipario e cantante, e che ascendano al cielo. Al primo posto, la struggente “O, my daughter, O, my sorrow”. Questa rientra nel primo effetto. Questi suoni ariosi sono tragici, è un paesaggio onirico doloroso e inospitale, come montagne innevate e una burrasca che non ti lascia stare mentre sei in lutto (scusate, è che sto pensando a “Il dolce domani”). Il languore si rafforza di ripetizione in ripetizione, e gradualmente emerge una voce femminile, non riconoscibile da subito. Dopo averlo ascoltato, vuoi solo la coperta di flanella e un abbraccio. “Lamentations” è proprio un titolo adatto all’album, se rapportato a questo pezzo centrale (il quinto di dodici). Consigliato l’ascolto per una forte esperienza ambientale ed emotiva. (Gilberto Ongaro)