ARLO BIGAZZI & CHIARA CAPPELLI "Majakovskij!"
(2020 )
Il produttore Arlo Bigazzi, da sempre portatore di musica atipica con la sua etichetta Materiali Sonori, con l’interpretazione dell’attrice e doppiatrice Chiara Cappelli e molti musicisti collaboratori a distanza (durante il lockdown), dà vita al progetto multimediale “Majakovskij!”. Si tratta di un libro e di un doppio CD: nel primo c’è il monologo recitato, che racconta della vita del poeta russo, accompagnato da musica sperimentale, assimilabile per certi versi alla trip hop. Nel secondo, ci sono le versioni dei brani strumentali, più altri titoli diversi, comunque parte dello spettacolo. Il “Prologo” avvia la narrazione dal corteo funebre, accompagnato da un solenne rock, testimoniando la popolarità di Vladimir Vladimirovič Majakovskij, seguito al suo funerale da 150.000 persone: “Una massa sterminata si rovesciava per le vie (…) c'era chi si arrampicava sui rami degli alberi, e chi stava sui lampioni”. Sul feretro che “navigava sul mare di gente” c’è la dedica: “Al poeta di ferro, una corona di ferro”. Perché si suole dire che egli fosse il poeta più allineato alla politica sovietica. Ma il monologo approfondisce alcuni aspetti del suo animo, che lo rivelano essere di più di un artista “asservito” all’ideologia. Infatti, nell’“Epilogo” finale, Chiara conclude: “Dietro la molla della sua arroganza, una timidezza inconcepibile (…) non era di ferro per niente, per questo era un poeta”. Tra il fiume di parole che scorre fra le tracce, è ricorrente l’espressione “Non ne parleremo”. Non parleremo della sua infanzia, della sua adolescenza. Eppure, si parla tantissimo del suo impeto, in una visione quasi erotizzata, della sua statura (un metro e novanta, dal quale poteva dire tutto quel che voleva), della gioventù ribelle, del suo sincero desiderio rivoluzionario. “Sarò nuvola in calzoni” descrive l’approccio battagliero: “Il vostro pensiero sognante sul cervello rammollito (…) sfrontato e mordace schernirò a sazietà (…) non ho nell'anima nessun capello caduto (…) se volete sarò carne rabbiosa (…) se volete sarò inappuntabilmente soave”. Ne “L’infanzia” Vladimir “iniziò a nutrire dubbi per il vecchiume, il religioso e anche le regole”, e in qualche traccia più in là (“I bambini nascono uguali”) svela lo spirito riottoso già in pubertà; anche perché le rivolte lo formarono in tenera età nella sua città natale, Baghdati (nell’attuale Georgia): “I bambini nascono uguali, i poeti poi crescono diversamente (...) un poeta nasce e cresce nelle contraddizioni del suo tempo (…) perfino a Baghdati ci furono disordini, aveva 12 anni”. Quindi, non stupisce che finì in carcere già a 15 anni, per tornarci a 16. In “Dal carcere” viene descritta un’intera generazione, rappresentata da ragazzi in una mensa che mangiavano panini al salame: “Il futuro va fatto, non dobbiamo aspettarlo (…) ci pungerà la vespa di un proiettile? Le nostre armi sono le canzoni”. Il poeta descrive la forza d’animo ne “La nostra marcia”: “Il cuore è il nostro tamburo (…) il nostro petto è rame di timballi”. La ribellione era anche culturale, assistendo annoiati all’esecuzione de “L’isola dei morti” di Rachmaninov, per il desiderio di rompere con quel “vecchiume”: “L’arte doveva sporcarsi le mani nel mondo”. La voce di Chiara si fa veemente in “Ne risponderete!”: “Hanno dissolto l'umanità in un bagno di sangue, solo perché qualcuno da qualche parte s'impadronisse dell'Albania (…) quand'è che ti solleverai in tutta la tua grandezza?”. Majakovskij sfidava le convenzioni sociali dell’epoca zarista, sfoggiando “La blusa gialla” in contrasto ai frac e al doppiopetto dei borghesi. Snobbato dai critici dell’epoca, scelse la poesia dopo aver esplorato la pittura. Da “Ma voi”: “Di colpo macchiai la macchia del mio quotidiano, ci versai colore da un bicchiere sopra un piatto di gelatina, mostrai gli zigomi sbilenchi dell'oceano. Sulla scaglia di un pesce di latta conobbi il richiamo di nuove labbra”. Tutto nuovo, tutto proteso nel futuro, questo era lo spirito di Majakovskij, con la necessità di “distruggere per ricostruire da zero”: “Entrò nella rivoluzione come se entrasse in casa propria”, recita Cappelli in “Amò molto”. La scelta di suicidarsi nel 1930 è avvolta nel mistero (anche se, una personale idea ce l’avrei, visto che, vivendo nel primo piano quinquennale, la realtà sovietica doveva essere molto diversa da ciò che il poeta rivoluzionario sperava). L’Epilogo conclude la vita senza conciliarsi col divino, anzi accusandolo della sua distanza dall’uomo: “Me ne vado, non sente, l'universo dorme, poggiando sulla zampa l'enorme orecchio, stellato di zecche“. Che dire, si tratta di un’opera assai impegnativa, anche se la musica offre vari spunti di leggerezza e di colore, tra improvvisazioni jazz, chitarre acide e percussioni a volte riverberate stile Berlino Est visto da ovest. Questi tempi di chiusure forzate però, forse sono l’occasione ideale per affrontare finalmente quella lettura rimandata da anni, e per ascoltare proposte di spessore come questa. (Gilberto Ongaro)