XENO "Sojourn"
(2020 )
Una sera, mentre ascoltavo in cuffia “Sojourn”, nuovo album degli olandesi Xeno su etichetta Art Gates, ad un certo punto ho dovuto spegnere, perché mi facevano un po’ paura e temevo di dormire male.
Per la cronaca, la traccia a metà della quale – comunque appagato, ammirato e soddisfatto – ho interrotto l’ascolto è “Exile”, sei minuti di mitragliate a doppia cassa e growl orrifico di Ruben Willemsen, fondatore, bassista e voce di questa metal band originaria di Middelburg. Poi in fondo ci sono arrivato, con piacere.
Passati attraverso vari cambi di formazione fino all’attuale line-up a sei elementi, soltanto due dei quali già presenti sul debutto di “Atlas construct” nel 2016, gli Xeno rappresentano una interessante declinazione del death metal virato in salsa contemporanea: in epoca di contaminazioni a tutto tondo, a colpire sono le derive prog e le inattese concessioni melodiche di questi sessantasei minuti sì tetri e minacciosi, ma capaci di addolcire la pillola grazie a divagazioni che pescano a piene mani dai più disparati ambiti, limitrofi e non.
Emblematica “Epiphany”, primo singolo+video tratto dall’album, alternanza di quiete e furia impreziosita dal lavoro delle tastiere, chiusa su una coda quasi pinkfloydiana e suggestiva nella brillante rilettura dei crismi di genere: a prevalere è spesso un impeto prettamente nordico, arie titaniche stemperate da armonie ingannevolmente docili (il breve intermezzo di “Memories” è perfino bucolico con tanto di cinguettii in sottofondo), cadenze marziali cullate in nebbie sulfuree, metal imbastardito ed aperto a soluzioni che flirtano scopertamente con tentazioni psichedeliche, schizzi neoclassici, minuscole incursioni nel jazz.
Accade ad esempio in “Closure”, portata a spasso da un crescendo graduale e pomposo sul canto morbido e melodioso di Edwin Haan al quale fanno da contraltare i rigurgiti gutturali di Willemsen nel finale; “Resurge” gioca sugli incastri fra ritmica e tastiere partorendo un chorus fragoroso ed incisivo, mentre “Uncaged” insiste per quasi sette minuti su un controtempo asfissiante della batteria.
In coda, nei tredici minuti della title-track succede di tutto: schegge sparse di Dream Theater e Tool, altri assalti a doppia cassa, oasi di quiete improvvisa, atmosfere celestiali, fughe pianistiche, scatti nevrotici, variazioni repentine si susseguono in una mini-suite cangiante, stordente, fascinosa. Tra evoluzioni e rivoluzioni antiche e nuove, “Sojourn” sfoggia ostentata padronanza di una materia che nell’ultimo decennio continua a mostrare con evidenza il suo status di musica in divenire. (Manuel Maverna)