NOVA SUI PRATI NOTTURNI "Nova Sui Prati Notturni"
(2020 )
Pregno di idee mai lineari, ispirato ed inesauribile nella sua forbita declinazione di un’arte sì concettuale, ma confidenziale quanto basta a sollevare il velo sulla sottile intellighenzia che la pervade, il ritorno dei Nova Sui Prati Notturni a quattro anni da “Non expedit” sempre su etichetta Dischi Obliqui si muove appassionato e sinuoso lungo dieci tracce morbide ed avvolgenti come da inveterata tradizione.
Sospese fin dagli esordi tra musica ed arti visive, colte ed impegnate, deliziosamente incatalogabili, le tessiture svenevoli ed evanescenti ricamate da Federica Gonzato, Giulio Pastorello, Gianfranco Trappolin e Massimo Fontana oscillano garbate fra echi di Paolo Benvegnù (“Dal deserto”) e suggestioni che lambiscono la trame estatiche dei Perturbazione (“Il mantello”, ispirato al racconto di Buzzati), snodandosi carezzevoli col loro incedere serafico - solo falsamente accomodante - lungo percorsi insondabili.
Affatto pacificato, beninteso: intimo, riflessivo, intenso. Non ridondante o vanamente cervellotico, bensì essenziale, minimalista, perfino scarno nel suo crooning composto (l’opener “Una notte”, pigra e docile nel registro compìto di Federica). Brani strutturalmente sobri sottendono trame preziose, complementari a testi ermetici e dolenti che fluttuano come bolle di sapone in cieli grigi. Melodie infide vagamente stralunate fungono da contraltare ora ad atmosfere cupe e notturne (“Nervi e sangue”) ora a ballate contrite à la Baustelle (“A casa”), oscillando tra il diafano rallentamento di “Studio e famiglia” – Red House Painters e Low a braccetto – e costruzioni digradanti verso vaghe suggestioni prossime al jazz (“Oggi 2020”).
Gli undici minuti strumentali scopertamente post di “Am T.”, affacciati su un oceano di nebbia purpurea, galleggiano in una stasi rilassata e sfuggente senza mai lievitare nè cercare un climax, spegnendosi mestamente in frammenti di trasognata afflizione, mentre “Nokinà” – brano che per intento e spessore meriterebbe trattazione a sé – riprende e dilata la composizione di Bepi De Marzi, l’Olocausto condensato in tre sillabe ripetute per otto minuti, mantra che è esorcismo piuttosto che purificazione, invocazione di amore e dolore a nessun Dio, esaltata da una rilettura che l’ammanta di un’inattesa aura di redenzione.
E’ il vertice emotivo di un disco che l’emotività talora soffoca inseguendo la perfezione formale, quasi crogiolandosi nella sua stessa mansueta ricercatezza, marchio di fabbrica e chiave di lettura di una musica elegante, raffinata, incredibilmente profonda. (Manuel Maverna)