THE BUSTERMOON "Mareena roots"
(2020 )
Vi siete mai chiesti, pourparler, che musica ascolterete da vecchi, o da diversamente giovani, per dirla meglio?
Non so, immaginatevi così, avete settantaquattro anni e vi va di ascoltare un disco: facile, adesso che siete sulla trentina, qualcosa di meno, qualcosa di più. I desideri non invecchiano quasi mai con l’età, eccetera. Però mutano le prospettive, gli istinti si placano, gli orizzonti assumono sfumature differenti. E non ci credo che – in pensione e con la dentiera - ascolterete ancora i Dimmu Borgir.
E allora, anche se vado sempre dicendo a mia figlia che morirò nel 2064 a novantatre anni a causa del crollo accidentale di un traliccio durante un concerto post-punk (il post-punk esisterà sempre e ci seppellirà tutti: sappiatelo), col giornale che mi dedicherà un trafiletto (”un’unica vittima, un grande anziano che si trovava in prima fila, nonostante i reiterati appelli della figlia a non recarsi all’evento”), secondo me da vecchio ascolterò musica country.
Non Mozart – che è terribilmente figo e che mettevo nel lettore anche a ventidue anni – e neppure il pot-pourri della radio più in voga: musica country, perchè bisogna pure riposarsi nella vita. Va bene l’innovazione, la cerebralità, lo spessore artistico, ma non sempre si ha voglia di spremersi il cervello sull’ultimo, il penultimo, il terzultimo disco dei Tool, o sul quarto, il quinto, il sesto disco dei Radiohead.
Il country è musica rilassante, non necessariamente disimpegnata ma spesso concepita come tale per via di quel suo piglio scanzonato anche quando non lo è, e – santo cielo – tante volte non lo è affatto: cito la mia adorata Mary Gauthier e chiudo qui. Sembra musica buona per ogni occasione: un viaggio in auto, un viaggio in treno, una partita di canasta con la moglie. Quando cucino mi ci rifugio spesso: sovente il prescelto è l’immarcescibile Johnny Cash, ma vanno benone anche gli eterni Willie Nelson e George Strait, o Tracy Byrd, che resta il mio preferito.
Da un paio di settimane, insieme a Steve Earle ed alla Zac Brown Band in heavy rotation (si dice così, no?) chez moi come graditissimo sottofondo e piacevole intrattenimento ci sono The Bustermoon, ossia i fratelli Stefano e Federico Stagno, Luca Nasciuti, Andrea Monaci e Fulvio Grisolia, cinque ragazzi del levante ligure al debutto lungo con le dodici tracce (più una bonus track) di “Mareena roots”, sontuosa autoproduzione che giunge a due anni dall’ep di esordio e che gioca con la tradizione d’oltreoceano mentre dispensa a piene mani una lievità antica e sincera. Ha immediatezza, passione, voglia, urgenza, leggerezza.
Loro lo chiamano folk’n’roll, a me va benissimo.
La title-track in apertura ha il passo svelto e pungente dei Cowboys Fringants, “The love we get” sembra addirittura un pezzo dei They Might Be Giants, “Happy tune” in due minuti e mezzo infila un singalong assassino che non ti togli dalla testa. Ci sono tracce di boogie (“Sweet mama”), r’n’r ruspante (“Traveling love”), southern rock à la Lynyrd Skynyrd (“New Orleans”, “Rotten fish”), pregevoli ballate (“As I breathe”), bucolici squarci laid-back (“The uncle’s ballad”, che mi ricorda la “Cabezon” dei Red House Painters su “Ocean beach”) e molto altro, in un’ora trascinante e disinvolta, divertita e solare, fuori misura e fuori tempo, ma perfetta così. C’è chi lo chiama country, ma è un dettaglio trascurabile.
It’s only folk’n’roll, but I like it. (Manuel Maverna)