recensioni dischi
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BELL MONKS  "The sun will find you"
   (2020 )

L’elogio della lentezza passa anche da dischi come questo. Pallido come un sole sbiadito di febbraio, eppure stranamente ipnotico. Un incantesimo a tinte pastello, stralunato e romantico nelle sue algide sfumature.

Di fatto un duo aperto ad ospiti e collaboratori, Bell Monks sono Jeff Herriott ed Eric Sheffield, entrambi multistrumentisti originari del Wisconsin. E “The sun will find you”, appena uscito per Clang Records, è il loro giocattolo, un oggetto transizionale. Composto nel 2014, da allora è stato di continuo rimaneggiato, perfezionato, arricchito, ristrutturato come un appartamento. Poi accantonato, poi di nuovo ripescato e modificato, integrato, riarrangiato. Nel frattempo i due sodali seguivano altri progetti, salvo di tanto in tanto rimettere mano al disco, finalmente impacchettato e pubblicato non senza notevoli modifiche rispetto alla primigenia, scarna versione iniziale.

A definire il perimetro di questa tenue litania è il canto di Jeff Herriott: profondo, caldo, accogliente. Ma anche cantilenante e monocorde, a prescindere dalla canzone. Ed è il suo bello. Sullo sfondo, scorrono immagini sbiadite cristallizzate in una fissità immutabile. Come guardare vecchie foto di quando eri bambino facendole scorrere con quell’aggeggio per le diapositive che oramai è un arnese da modernariato.

Istantanee di un tempo lontano, briciole perdute.

Composizioni simili a confessioni prolungano arie dilatate come dei Talk Talk semplificati, le protraggono all’infinito come faceva Mark Kozelek ai tempi dei Red House Painters, ma la differenza nel caso dei Bell Monks è che le loro trame sembrano inconcluse. Dal nulla vengono, verso il nulla vagano. Splendide, in questo limbo diafano che è quasi pura atmosfera. “Waiting for the tide to change + Follow the slow bord” è l’emblema dell’album: una bolla inconsistente di sette minuti che è puro invito all’abbandono, alla resa incondizionata. Dapprima si muove come una canzone, finge di svilupparsi, poi pare chiudersi in una nebulosa. Invece rinasce dalle proprie ceneri collassando in un paio di minuti avulsi, poco più di un frammento incollato in coda, piccoli suoni su un orizzonte sfuggente.

E’ l’impalpabile inconsistenza di brani che ciondolano pigri, rilassati, malleabili come argilla. Tessiture docili scivolano indolenti in tonalità spesso minori, assecondando con andamento sinuoso le anse placide di questo fiume mansueto che scorre come olio in una giornata limpida. Fra schegge di ordinaria malinconia bucolica (“No surprise, no control”) e virate verso lande alt-country sfiorate con malcelata timidezza (“Who will know?”), l’album trasmette una silente, rarefatta beatitudine.

Musica da meditazione, sospinta un passo alla volta da quel crooning morbido che ricorda cose nuove, cose meno nuove, cose antiche. Ma lo fa su un impianto che non è popolare, bensì sottilmente elitario, colto, concettuale. L’atmosfera è da post-rock di prima generazione, figlia dei June of ’44 più malleabili (quelli di “Four great points”), ma non estranea a retaggi di Americana; fragile come vetro soffiato, oscilla tra echi di Morphine e For Carnation (“All my life”, con aperture vocali), lambendo perfino echi pinkfloydiani negli otto minuti di diafana perfezione di “I wait for nothing”. Nel titolo, tutta la magia di un disco inafferrabile, da lasciar fluire come un pensiero, un’idea, una sensazione. (Manuel Maverna)