recensioni dischi
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HOLLOW BONE  "Hollow Bone"
   (2020 )

Nata dalla mente e dalla variegata ispirazione di Carlo Garof, batterista/percussionista milanese classe ’75 già nel progetto Tongs (del quale giova ricordare almeno il debutto “Jazz with the megaphone” per Long Song Records, 2009), Hollow Bone è una creatura minacciosa, plumbea, incombente.

Ad affiancare Garof, Claudio Giuntini e Giona Vinti, rispettivamente chitarre ed elettronica.

In una landa mortifera al confine tra art-rock, drone-music, accenni di doom e suggestioni sludge, fusi in un crogiuolo che accumula tensione e la rilascia sotto forma di sperimentazione assortita, “Hollow Bone”, su label Hellbones/Dreamingorilla, raccoglie cinque lunghe tracce solide e granitiche, a tratti monolitiche nel loro incedere sferragliante. Asfissiante perfino, mentre mena fendenti che sono bastonate, quasi a raggiungere una trance mistica di matrice psych sublimata nella reiterazione di figure squadrate e ossessive.

Procede su una cadenza marziale l’opener “Sacred skull”, divincolandosi fra tempi dispari e variazioni che lambiscono il prog, sghemba sinfonia mutevole e cangiante; ondeggia infida per otto minuti su un passo da spy-story “NoNTime”, impreziosita dal violoncello di Matteo Bennici che la guida fino al graduale crescendo conclusivo; si snoda sinuosa su una frase di chitarra “Sequoia”, Ronin e Morricone a braccetto prima della deflagrazione che la spacca a metà; lievita sorniona e attendista “OOPArts”, martellata di tredici minuti che si inerpica a scatti lungo l’ennesimo saliscendi congesto e saturo.

Il sipario cala sul rallentamento catatonico, eppure languido e toccante, di “Badlands”, oasi di mesta desolazione in minore arrancante su una ritmica indolente, resa struggente dalla sfocata armonia che la percorre in profondità come un fiume sotterraneo.

Commiato sorprendente di un disco dalle molte anime, inquieto e fosco nella sua pervicace ostinazione. Brutale o suadente, secondo l’estro del momento. (Manuel Maverna)