recensioni dischi
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THIS ETERNAL DECAY  "Silence"
   (2020 )

Strappando appena 24 fogli di calendario, ecco riapparire in scena il trio romano dark-synth-wave dei This Eternal Decay. Infatti, sono passati solo due anni per dare il seguito a “I choose an Eternal of this”: un debutto i cui echi lodevoli fecero ben presagire sulla potenzialità del combo, che ritroviamo ancora più cangiante nelle 9 tracce del nuovo concept-album “Silence”, avvolti in un labirinto fitto d’oscurità meditativa, di una lingua che batte dove il dente (della solitudine) duole. La prima della lista, “Future anthem”, è già un succoso anticipo dei salti nel buio che affronteremo strada facendo, in un monocromatico tragitto sonoro tra i Kraftwerk più efferati e i Devo attualizzati con fremenza esecutiva, mentre le vibrature chitarristiche di “I want” portano a cena dai Cure e (bisogna dirlo) è un bel sentire, col basso che trascina in trip ottenebrato. Anche se in “Fade away” c’è meno dinamismo oscuro, l’andazzo ipnotico non fa che alimentare suggestioni abissali. La frustata elettronica di “I am nothing” sposta la formula con strali di synth più glaciali, volti a certificare la nullità dell’essere umano nelle spire della solitudine più distruttiva. Magari, si scorge un respiro nell’ambientazione della slow-dark-song “A secret”, però se i sei minuti del brano li sparate a palla in cuffia, vi orbita l’incubo a tutto tondo, in cui trovare la scritta “exit” resta una pia illusione. Torna densa percussività nell’algida titletrack, impreziosita dal feat. di Alex Svenson (dei Then Comes Silence), nella quale le nubi introspettive si fanno incalzanti, di pari passo con l’assetto synth-wave di stampo eighties. Giusto un paio di minuti per inghiottirci nel tilt strumentale di “Two minute to collapse” che la luna si fa bianca in un pallore che atterrisce e sconvolge nella solida abrasione strutturale di “White Moon”, arricchita dall’intervento della singer Sonya Scarlet (Theatres des Vampires). Si arriva, cosi, a sferrare l’ultimo esorcismo contro il “fantasma” della solitudine, ma “Ghost” è una brutta gatta da pelare: ingresso in prigione claustrofobica, loops ubriacanti e caroselli di synth galoppanti poco inclini a soluzioni chimeriche di salvezza. Sta di fatto che “Silence” non farà di certo pentire coloro che tessevano lodi al trio capitolino, già ai tempi del loro debutto, poiché raggiungere cotanta maturità e compattezza progettuale, dopo appena due album (e per di più con un concept) significa che di trovate brillanti ne girano a iosa e, magari, il loro segreto è proprio quello di ponderare guizzi ispirativi nel mare del “silenzio” ideativo in san(t)a solitudine. (Max Casali)