recensioni dischi
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PARADISE LOST  "Obsidian"
   (2020 )

Dopo anni di interesse e passione pressoché esclusiva per il progressive rock di matrice Seventies (ovvero, come fare la cosa più sbagliata di questo mondo: limitarsi a un determinato genere, dopo di che il diluvio!), le prime incursioni in territori musicali inizialmente limitrofi, e via via sempre più distanti, mi hanno aiutato a (ri)scoprire un approccio meno legato a schemi predefiniti (che nel migliore dei casi funzionano come la scala di Wittgenstein), più radicato nella caleidoscopica varietà di sensazioni, vissuti e risonanze che tutti noi sperimentiamo una volta inserito il disco nel lettore.

Oltre all’indiscutibile valore artistico, dei Paradise Lost mi ha colpito la grande difformità degli stili succedutisi nei vari periodi della loro lunga carriera iniziata alla fine degli Ottanta, fino ad arrivare al disco più controverso, denso di richiami all’elettronica a là Depeche Mode, (apparentemente) più “commerciale” e che poco o nulla aveva a che fare con la loro precedente produzione: Host (1999). Suonerà blasfemo per gli adepti della coerenza musicale a tutti i costi, coerenza che non di rado sconfina nella ripetizione e nella stagnazione, ma in questo campo non la ritengo una gran cosa. Del resto, la realtà esterna e interna, come c’insegnano i grandi saggi occidentali e orientali, non è in continua trasformazione? (si pensi al panta rhei di Eraclito o al principio buddista dell’impermanenza).

A parte l’etichetta principale, scontata, di “heavy metal”, l’eventuale operazione – non necessaria, intendiamoci – di attribuire alla formazione anglosassone una sottodefinizione più specifica, per quanto sopra detto risulta destinata al fallimento (doom-ghothic-death?). Con Obsidian, che si pone in linea di continuità con i precedenti, ottimi, The plague within (2015) e Medusa (2017), i Paradise Lost cementano una maturità espressiva di tutto rispetto, che potrebbe finalmente accordare i gusti dei loro sostenitori. Le tipologie musicali possono variare in relazione ai periodi e alle fasi creative di una band, ma la qualità, come il coraggio di Don Abbondio, “…uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare” (dai ricordi liceali - e non solo - del capitolo XXV dei Promessi Sposi del Manzoni). E la qualità, mai venuta meno nella vasta discografia del quintetto che porta il titolo dell’omonimo poema epico di John Milton (1667), si afferma ancora una volta in questo disco penetrante e ispirato, scuro come la pietra talismanica richiamata dal titolo (ossidiana), con momenti solenni (vedi la quinta traccia Forsaken e quella finale Ravenghast, letteralmente da brividi), guidato da una ritmica possente e maestosa, intervallato da passaggi intimisti-minimalisti di grande intensità emotiva (l’inizio di Darker Thoughts su tutti).

Obsidian rappresenta l’ennesima conferma di un gruppo storico che, a distanza di trent’anni di attività, non mostra alcun segno del tempo, né crisi di ispirazione. Se il “nuovo che avanza”, l’oggetto di desiderio (indotto dal mercato) che attira in quanto nuovo indipendentemente dal suo valore, è rivolto, con il suo perverso fascino, ad attrarre l’Homo consumens, nell’arte tale motto per fortuna non ha alcun diritto di cittadinanza. (MauroProg)