PRINCESS THAILAND "And we shine"
(2020 )
In fondo detesto questo disco, ma lo amo.
Lo amo perché contiene la summa delle passioni musicali di una vita intera, o addirittura perchè contiene una vita intera.
Una vita intera – o quasi – di ascolti ai margini, ben più di un passo oltre il confine della musica che chiunque può ascoltare senza che altri se ne possano lamentare.
Lamentare perché fa rumore, perché non si capisce cosa sia questa roba, perché non l’ho mai sentita alla radio, perché dà fastidio ai bambini, perché dopo due minuti ti viene mal di testa, perché dimmi tu se queste sono canzoni, perché che depressione, mamma mia.
Mamma mia che te ne sei andata, tu sì che questa musica la tolleravi quando te la propinavo una vita fa, mentre chiacchieravamo in cucina la sera prima che papà rincasasse, tu che preparavi la cena e io che mettevo i dischi.
I dischi che oggi cullo come figli e che propongo agli affetti più prossimi come facevo con te, talvolta ricevendo dissenso, di rado – ma neppure tanto – ottenendo apprezzamento per quelle arie oscure, magari antiche, certo così tristi.
Tristi – non occorrono altre parole – come la band francese Princess Thailand, come le sette tracce di questo enorme “And we shine”, opera seconda che è prodigio e profluvio di desueta contrizione, nostalgico quanto basta a trafiggere cuori in cui mai è sopita la passione per quelle tenebre ben note, afflitto e desolato inno del perdersi.
Perdersi fra le spire di una splendida agonia sepolcrale fatta degli ingredienti che assapori da sempre nel milieu che le belle penne definirebbero sicuramente post-punk: tonalità minori, bassi profondi, linee sghembe, ritmo incalzante, canto espressionista, buio fitto, una voce di donna ad intonare la litania di un addio.
Un addio che sa di tempi andati, di Siouxsie e di Cure, un disco nipote di “Pornography” e di “Join hands” che saccheggia, omaggia, sublima e rende onore nelle sue trame contorte ad orizzonti perduti, tornando dal profondo a farti fremere come solo un profumo, un colore, un ricordo, un sapore, una musica può fare mentre si aggira nei recessi della mente e dei suoi meandri.
Meandri tetri nei quali si divincola questo post-punk (hanno ragione le belle penne) magistrale con tutti i suoi crismi: la vocalità sovraesposta della vestale Aniela Bastide, le impennate stordenti sventrate dalle chitarre nevrotiche e dai contrappunti malsani dei suoi cinque sodali, le parole ripetute parossisticamente a costituire abbozzi di quelli che gli altri chiamano ritornelli.
Ritornelli affidati ad ingorghi soffocanti che rasentano una pura ed estatica meraviglia in nero prossima a quel capolavoro che fu “Image” dei Whispering Sons non più tardi di un paio di anni fa, contorsioni infide come quelle di di “First time”, evocazioni e rievocazioni stritolati nelle grinfie di “Sonar”, solenne delirio e gustoso bailamme.
Bailamme sì placato nel languore distante della frase di chitarra che porta a spasso “In this room” su un’aria di esile melanconia tra Interpol e Nothing, ma presto ricreato nel memorabile battito monocorde della disperata deflagrazione di “Now/where”, nel finale congesto di “Night after day”, nella spettrale chiusura di “Into her skin”, con la voce di Aniela a risuonare gelida come in una stanza vuota.
Vuota forse, o stracolma di fantasmi affogati in questo pandemonio di rimembranze sommerse che si agitano vive e vivide sotto la superficie sempre leggermente marezzata della memoria in forma di canzoni.
Canzoni che servono ad uno scopo, quello di lasciarsi divorare golosamente da chi le ha tanto cercate: a chi le ha scritte, cantate e suonate nemmeno lontanamente importa di quali dolci demoni possano ridestare questi trentuno minuti che amo e che detesto.
Detesto perché mi costringono a guardarmi prima indietro, poi avanti.
Avanti ci sono orizzonti, ma i ricordi sono più delle promesse, più delle aspirazioni, più dei desideri, che per fortuna non invecchiano quasi mai con l’età, anche se era meglio viverli una vita fa.
Una vita fa, Lella, là in cucina, ricordo bene. (Manuel Maverna)