MOSES SUMNEY "græ"
(2020 )
A tre anni di distanza dallo splendido Aromanticism, Moses ritorna con il doppio album græ, quasi settanta minuti fascinosi e avvolgenti. Si tratta di un progetto ambizioso e complesso nel quale Moses amplia ulteriormente i suoi orizzonti sonori, dando un effetto ancor più concreto e lucente alle sue sperimentazioni tra generi e alla sua voce grandiosa. Con græ Moses si conferma uno degli artisti più interessanti della sua generazione.
“I am not a fan of revivalist soul music”. Questo Moses arriva a dire, parlando di “Cut Me”, la vera e propria chiave d’accesso al suo nuovo disco, græ, in una recentissima intervista per Rolling Stone nel quale vengono passati al setaccio lui stesso, il suo album e le sue influenze artistiche. “Cut Me” apre l’album con una splendida linea di basso che potrebbe provenire da un soul senza tempo. La voce dipinge paesaggi blues-folk mentre il brano procede in direzioni gospel quando i cori rispondono alla, o accompagnano la, linea solista. Si è ispirato ad Aretha Franklin, dice nell’intervista, ma in realtà sembra guardare a Prince. Disdegna ogni mera imitazione o riproposizione di un tempo perduto e disprezza tutto ciò che è revival. Moses è ancorato alla contemporaneità, è un cantante che fa della sua blackness una conditio sine qua non della sua stessa musica, come aveva fatto, in termini ben più evidenti, Nina Simone. Con “Cut Me”, nella sua componente anche un po’ masochista che il titolo ammette, veniamo precipitati in un mondo dove colpevoli e giusti sono continuamente incalzati, processati, seguiti. Lo splendido video, girato da Moses, è testimonianza della fisicità che la sua musica porta intrinsecamente con (e dentro di) sé.
Il progetto ambizioso che è græ, la soglia che divide – o che unisce – il nero e il bianco dell’animo umano, rappresenta un’evoluzione rispetto al più scarno e conciso Aromanticism. græ, lungo e graffiante, è stato pubblicato in due parti, la prima a febbraio e la seconda ieri. È un doppio non facile, accessibile principalmente a chi ha già conosciuto Moses quattro o cinque anni fa e sta seguendo costantemente il suo articolato percorso. Ma dà tanti indizi su Moses anche per chi arriva a conoscerlo (colpevolmente) soltanto oggi. In “Polly”, centro nevralgico dell’intero disco, presentata a dicembre in un video (l’apparato visual in Moses è fondamentale) potentissimo nella sua semplicità, dove Moses ci osserva e respira, piangendo, un arpeggio di chitarra accarezzato e incostante culla la splendida voce, dando vita a un folk di una grazia e una spiritualità rare. È una canzone che potrebbe essere sempre esistita, nelle pieghe del tempo o in un angolo oscuro dei Monti Appalachi, ma che solo Moses avrebbe potuto levigare in quel modo.
È chiaro come Moses rifugga da qualsiasi etichetta di genere, di approccio e di filosofia, facendo tesoro di tutto ciò che l’ha formato, dalla musica al cinema, dalla letteratura alle arti figurative. Non lascia nulla a caso, controllando lui stesso il marketing dei suoi lavori e dirigendo i suoi video. È la sua voce che rende magica ogni cosa che tocca, e dalla voce lui parte per scolpire gli angoli nei quali vivranno tutti gli altri strumenti. Se la voce è inizio ed è fine, strumento di rabbia, di felicità, di protesta, la musica intorno, avvolgente e cosmica, non è mai meno importante. I due aspetti possono diventare un tutt’uno, farsi ritmo, energia, come in “boxes”, o incrociarsi senza incontrarsi mai, rispettando ciascuno la sacralità della propria funzione, come nella minimale e miracolosa “Lucky Me”.
Il cosmico e l’universale sono a volte ricamati intorno a esperienze autobiografiche, come accade nella ambientale “Two Dogs”, dove voce e musica sono impegnati a dipingere un paesaggio dell’anima. Ma Moses ama parlare di sé come membro della comunità umana. Anche dove è preminente il pronome di prima persona singolare, Moses sembra dialogare con tutti coloro che rappresenta e che da lui si sentono rappresentati. È un aspetto cruciale della sua opera, che per qualche motivo lo fa sembrare un messaggero, un profeta, qualcuno che non vuole e non può occuparsi soltanto di sé. Nella sua arte c’è qualcosa di religioso. Forse è il nome che ci porta a pensarlo. In uno dei momenti più alti del disco, “Me in 20 Years”, una preghiera d’amore e insieme di redenzione, Moses canta «I'm left wonderin' / If it's written on my urn / That I'll burn alone / Like a star», consumato dal dubbio di essere una risposta, un’àncora di salvezza, per tanti, ma un punto di domanda infinito per sé.
La bellezza del disco è concentrata un po’ ovunque, ma è più evidente in alcuni momenti, rivelazioni improvvise che spesso assurgono a intime confessioni. In “Neither/Nor”, per la quale, come ha dichiarato a Rolling Stone, si è ispirato alla musica folk e country della sua terra di origine, la North Carolina, riflettendo sul banjo e sulla sua origine africana, Moses si lascia andare ad alcune delle dichiarazioni più esplicite di sempre riguardo a sé stesso. Canta della sua infanzia, della paura di conoscere sé, di quel brivido per l’indefinito che lo accompagna sin da bambino. È un’idea che nasce con Leopardi, che per primo ne scrive nel suo Zibaldone, quando racconta della sensazione sublime che provava nell’ascoltare un suono a distanza senza vedere chi o cosa lo emettesse né capirne la provenienza. Già allora Moses vedeva e sentiva con occhi e orecchie diversi dagli altri. Quegli occhi oggi vedono quello che canta la sua splendida voce. Ma in “Neither/Nor” c’è anche una riflessione su un presente di dubbi e inquietudini. Moses dice di non essere in guerra, se ne sta sulla riva chiedendosi se la marea si alzerà, ma non si sente in pace se pensa che morirà da solo. È un pensiero lancinante, tremendo, specialmente se a raccontarcelo è una voce del genere.
Questo senso di disagio è presente, declinato in modo differente, anche in “Virile”, il primo singolo, uscito a novembre, che dimostra quanto vari e profondi siano i temi che Moses affronta. “Virile” si scaglia contro il patriarcato e l’ossessiva esposizione dei corpi che la società contemporanea veicola, spesso in maniera mascolina e aggressiva. Anche in questo caso il video che accompagna il brano è fondamentale per capire gli intenti di Moses. Il suo corpo, a petto nudo, balla e corre intorno a carcasse animali di una macelleria, dando vita a una macabra danza di vita e di morte, di erotismo e disgusto.
In molti punti emergono conflitti interiori che Moses, come ogni grande artista, non può non sperimentare con un’intensità e una forza superiori al normale. È la paura di avere risposte sicure mentre si tenta ugualmente di cercarle che viene cantata in “Bystanders”, l’aporia che si vive nel pretendere trasparenza senza capire a che cosa possa mai servire: «What's the use of confessing the truth / To an executioner in a booth», si domanda senza alcuna ironia. Il successivo appello «Don’t waste your candor» è cantato con speranza più che con convinzione. È la volontà di fuggire da sé rimanendo fedeli a sé stessi, di allontanarsi dal corpo e rimanere attaccati allo spirito, che anima la sublime “Gagarin”, un brano vagamente jazzistico dove il riferimento al cosmonauta sovietico rimanda al bisogno di esplorare nuovi universi. Galassia, terra, asteroidi sono tutti elementi che Moses elenca mentre va in cerca di quella «Gold metal / Surrender». Prima che il brano si concluda con un’esplosione primigenia di synth che ci riporta al Big Bang, Moses ripete: «I give my life to something / Something bigger than me». Non è una rinuncia, non alza bandiera bianca. Moses sta, anzi, piantando la sua bandiera su un nuovo pianeta, del quale però sa pochissimo perché è appena sbarcato. È un inno a non fermarsi anziché a contemplarsi.
(Samuele Conficoni)