MARRANO "Perdere"
(2020 )
Dischi come questo servono.
Sono addirittura indispensabili al di là della qualità intrinseca del materiale, che talvolta appare perfino secondaria.
Tra contemporanea, art-rock, electro-cumbia, alt-folk, nu-jazz, psych, metal (a)variato e contaminazioni prêt-à-porter, è una rarità imbattersi in album come “Perdere”, nuova sberla per Floppy Dischi e Altini Cose del trio romagnolo Marrano.
Andrea, Daniele, Nicola sono tre ragazzi di Rimini comparsi nel 2015 con un ep di quattro tracce, seguìto due anni più tardi da “Gioventù spaccata”, dieci episodi velenosi e urgenti in debito con certo grunge transnazionale, ibrido nervoso tra Ritmo Tribale, Nirvana e Verdena all’insistita ricerca della classica mistura fra melodia e sporcizia: “Torna a casa” sembrava una outtake de “Il suicidio dei samurai”, “Gutro” era sgolata come nemmeno “Territorial pissings”, e così via. Per la cronaca, trovate entrambi quei lavori recensiti su queste stesse pagine, a riprova di ben riposta fiducia nel progetto fin dagli albori.
Per dare riferimenti: ascoltando questo genere di cose mi sovvengono sempre gli Afterhours (quelli brutali di una volta); poi i Les Fleurs Des Maladives, che sono solito definire gli Afterhours di ieri e che cito sempre non perchè siano miei amici intimi, ma perchè sono riusciti a darmi la stessa scossa degli Afterhours (quelli brutali di una volta); infine i Pixel, band spezzina il cui “Perfettamente inutile” nel 2018 fu una gran bella sorpresa.
Rispetto al recente passato, “Perdere” mette a fuoco meglio – infinitamente meglio – la passionalità acerba degli esordi, conservando intatta quella stessa furia, impastata con una consapevolezza accresciuta ed una maggiore padronanza della materia, non più grezza e istintiva come al debutto. I tre sono cresciuti nella scrittura, magari lasciando per strada qualche grammo di cattiveria: lo hanno fatto anche i Cloud Nothings, quindi è buon segno.
Figlio illegittimo di un’accessibilità comunque malsana, “Perdere” ti sbatte in faccia la sua verità, una realtà fra le tante descritta con il livore sbavato di chi canta parole universali adattabili ad ogni animo inquieto che si rispetti, crescendo sì ruvido e sporco, ma non più così ruvido e così sporco come in principio. Più maturo e centrato, si conserva abrasivo, ostile e negativo, profondamente schierato dal lato buio della faccenda, coi piedi nel cemento e la testa sotto la grandine.
Dall’apertura programmatica di “Pioggia del diavolo” (“è qua che mi sento migliore/lo so che non c’è nulla da vincere/non mi avrai mai così sono stato ribelle/lo so mi dirai ho tutto da perdere”) al basso slabbrato di “Golf”, passando per il vuoto pneumatico di “Blue whale” (“Le mie tasche non sono altro/che un vuoto da colmare con tonnellate di alcool”), quello che conta è che mai – nemmeno per venti secondi, così per sbaglio – i tre considerino la possibilità di abbassare il tiro: “Perdere” prende a sassate per trentacinque minuti, anche quando rallenta per un attimo i giri, come nella indolente ballata à la Edda de “L’odore del distacco” o nei cinque minuti di solitaria desolazione di “Sam”.
Stesa su un bàss paradis di fallimenti a prezzi stracciati (“Quattro venti”), una coperta di elettricità satura e disturbante trafitta da vocalizzi ora sguaiati, ora sprezzanti (“Oceano dei vivi”) riveste lo scheletro di una musica sofferente e intimamente violenta, prosciugata da ogni traccia di ironia, privata di luce e di vie d’uscita.
La mitragliata di “Gente” è sparata dritta in faccia come certe feroci bordate del Teatro Degli Orrori, intrisa di quello stesso amaro disgusto (“Sei in una città che non ha niente da dare/a parte un bar in cui ti ci puoi annegare/e le mie voci mi dicono di andare via/ma i giudizi son sempre stati pesanti a casa mia”) che Pierpaolo Capovilla è così bravo a sputarti addosso, il medesimo senso di smarrimento che subdolo si insinua tra desiderio e realizzazione nella chiusa dimessa di “A perdere”: “Dai, fallo con me/respirare questo mondo fatto di perdite/di fotografie sbiadite/non lasciarmi qui a perdere”.
Sempre quel verbo che ritorna di continuo: memento mori, lest we forget. (Manuel Maverna)