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CLARICE JENSEN  "The experience of repetition as death"
   (2020 )

Uscito per 130101/FatCat Records, questo è un album composto da cinque brani incentrati sul tema (patologico) della ripetizione. La ripetizione di eventi, gesti, circostanze, pensieri, sequenze. Un concetto tratto da alcuni principi psicoanalitici freudiani, circa la “costrizione a ripetere” comportamenti autodistruttivi o rivivere eventi traumatici. Il titolo dell’album è invece tratto da una poesia del 1971 (“A Valediction Forbidding Mourning”) della poetessa radical-femminista americana Adrienne Rich. A livello contenutistico le composizioni sono dense di una certa angoscia, oscurità, enigmaticità, compatibili col modo di fare cinema di registi quali Lars Von Trier. In particolare, alcuni passaggi sonori sembrano concepiti appositamente per musicare film come “Melancholia” o “Dancer in the dark”. E’ un’angoscia artisticamente preparata, che ispira la produzione musicale e dà i suoi discutibili frutti. E sono frutti che la Jensen descrive e li collega ad eventi traumatici della sua vita personale, quali la malattia e la morte della madre. La ripetitività di cose banali appartenenti al periodo della malattia - quali preparare pasti, fare la spesa, pagare le bollette, ma anche andare alle visite mediche - costituiscono il tappeto d’ispirazione su cui poggiano le ricercate sonorità della compositrice. Musicalmente il concetto di ripetizione viene riprodotto nella forma dei suoni in loop. Un looping prolungato ed adattato ai singoli brani. Elementi sonori che si librano già alle prime note del violoncello di “Daily”. Con una certa tendenza a far figurare nella mente immagini sparse, ovviamente legate all’esperienza di ognuno. Una partitura che poi si apre, resta in bilico e pare galleggiare, in un looping di assodata connotazione ambient. Col successivo “Day tonight” si percepiscono i toni appena più inquietanti, dovuti alla riproduzione di suoni in chiave sconosciuta e ritmicamente aumentata. Fino ad incrementare ed espandere, sonoramente, per poi implodere lievemente e lasciare una scia di suoni di lunga durata. “Metastable” rappresenta uno dei brani nucleo dell’album, ispirato dall’insieme dei segnali acustici emessi dai macchinari salva vita degli ospedali. Una ripetitività di suoni che, nell’immaginario della Jensen, varia dall’essere affascinante, travolgente o irritante; e si intrecciano in un unico loop, anche col contrappunto fisso intorno ad un profondo suono a basse frequenze, tutti in continua evoluzione. Altro punto focale dell’album è la successiva "Holy Mother". Un brano che dà l’idea dell’imponenza, e lo fa muovendosi attraverso le dodici tonalità cromatiche. Imponenza ispirata dal Monte Everest (il cui nome in tibetano è Qomolangma), dal senso di quel luogo e dall'ossessione dell’uomo per la sua conquista, fino a considerare l’angoscia degli scalatori che, nel tempo, hanno fallito l’impresa, rimanendo permanentemente sepolti nelle sue faglie. Per chiudere con “Final”, che viene prodotto a mezzo utilizzo di loop derivanti da nastri degradati ed usurati dal tempo, da cui, simbolicamente, proviene una tipica erosione del suono. E mentre il brano volge al termine, il tema viene interamente eseguito nella sua chiave originale, completamente armonizzato, da un effettivo quartetto di violoncelli. E’ un album denso di emozioni violente, che riescono a figurare nella mente dell’ascoltatore esclusivamente grazie o a cagione del suono. Un suono la cui perfetta espressione però non è comprensibile da tutti; come tutto ciò che dalla sfera musicale tenta di varcare, oltremodo, la mente e la sfera emozionale dell’ascoltatore. Un suono non per tutti i giorni. Ma pregno dell’autenticità tale che, d’altra parte, non gli fa neanche chiedere di esserlo. (Vito Pagliarulo)