FIONA APPLE "Fetch the bolt cutters "
(2020 )
“I've waited many years”. Con queste parole inizia Fetch the Bolt Cutters, il quinto album di Fiona Apple. Ne abbiamo attesi tanti anche noi prima di poter assaporare quest’opera, tredici canzoni – alcune circolavano già su YouTube in forma di demo o di registrazioni dal vivo – tra loro connesse attraverso una narrazione che rende i singoli brani le pietre di un’unica costruzione perfetta. In questo senso, Bolt Cutters rappresenta un tassello decisivo in una carriera, quella di Fiona Apple, che era già straordinaria. È, senza dubbio, una vittoria sotto tutti i punti di vista. Lo è nei confronti dell’industria discografica che ai tempi dei social vorrebbe un pezzo nuovo ogni mese, nei confronti della stampa musicale che pretende di etichettare ogni artista e di renderlo un genere, nei confronti dei fan che vorrebbero che i loro idoli fossero sempre connessi e, soprattutto, nei confronti del machismo ancora troppo imperante.
Apple ha parlato del disco al New Yorker, ormai un mese fa, e a Vulture proprio due giorni fa. Ha raccontato questioni cruciali, lasciando per un attimo da parte la sua nota elusività. Fetch the Bolt Cutters è stato registrato quasi interamente nella sua casa di Venice Beach, l’ha ispirato in parte il #MeToo e il titolo è una citazione a The Fall, serie thriller britannica dove Gillian Anderson è una detective che si occupa soprattutto di casi a sfondo sessuale. A distanza di otto anni dal brillante Idler Wheel, Apple sembra ripartire proprio dove si era fermata, da una serie di figure enigmatiche che riempiono il suo immaginario e da una scrittura sanguigna, vivida, che le melodie e la violenza sonora fanno esplodere intorno.
La procedura di composizione e di registrazione è stata viscerale (Apple ha finito per servirsi dei muri della sua casa e pure di diversi cani) ma non priva di quella leggiadra razionalità che ha sempre caratterizzato gli album di Fiona Apple. Sono quella visceralità e quella razionalità che oserei definire spietate. Non lasciano scampo a nessuno e sono intrinseche al mondo selvaggio che le canzoni creano e percorrono. La sua voce, il suo piano, qualsiasi cosa Apple suoni o utilizzi e qualsiasi parola canti sembrano essere pronti a giudicarti, silenziosi, severi. Sono armi e funzionano bene. “Kick me under the table–all you want–I won’t shut up”, canta Apple in “Under the Table”. Lotta, si ferisce, vince. La battaglia, però, lascia dubbi e timori. La sua mente è pervasa da immagini forti – harassments, violenze, bullismo – che la perseguitano come fanno i demoni più cattivi. Veniamo gettati nella quotidianità del dramma e dell’incomprensione. È evidente in “Newspaper”, dove le persone che compaiono, che pensavi di conoscere, diventano estranei. Apple non sta chiamando nessuno. Sta facendo ordine nei suoi pensieri.
Nell’affrontare temi simili, l’album non può che essere un’esplosione di sentimenti estremi, una dichiarazione di libertà su ogni fronte. La title track, dove compare Cara Delevingne ai cori, è il manifesto dell’album. “Fetch the bolt cutters, I’ve been in here too long”, canta Apple nel chorus, un’apertura improvvisa rispetto alle strofe, più cupe, dove Apple racconta la prigione che le it girls a scuola avevano cercato di costruirle intorno. Muovendo i pensieri da un’amicizia instabile, Apple ricorda di quando ancora non sapeva come reagire alle offese: «I hadn't found my own voice yet», canta Apple, «So all I could hear was the noise that / People make when they don't know shit». Il brano è anche metafora del suo percorso artistico. La libertà già sognata e inseguita su Tidal e When the Pawn è stata prima identificata in Extraordinary Machine, catturata poi in The Idler Wheel e infine celebrata in quest’opera. Per arrangiamenti e produzione, Fetch the Bolt Cutters è forse ancora più rifinito dei dischi che lo precedono.
L’album è costellato di persecutori e di perseguitati, di gridi di aiuto e di soprusi gridati, di uomini abusivi e di donne demiurgiche. Le signore di “Ladies”, da potenziali rivali, sono persone con le quali, anche solo in un’ironia macabra, Apple simpatizza, tra quel liberatorio “Fruit bat” e il lapidario distico “Nobody can replace anybody else / So it would be a shame to make it a competition”, così cinico e così Fiona Apple. Di “Shameika”, il cui titolo porta il nome di una compagna di classe di quand’era bambina, Apple ha raccontato un aneddoto di non poco conto nell’intervista a Vulture. Non ricordava se questa bambina fosse una brava persona o una bully, non sa se oggi sia una brava persona o meno, e per questo si aggrappa a una vecchia foto di lei che una ex prof le ha inviato. Storie di questo tipo sono fondamentali per capire quale relazione Apple ponga tra ciò di cui scrive e le canzoni stesse e dimostrano come siano stati difficili i suoi rapporti con le donne dopo gli choc scolastici. Le canzoni sono gli strumenti che potrebbero cambiare questa tendenza.
Già all’inizio del disco, con “I Want You to Love Me”, che pare un invito a desiderarsi e ad amarsi, nata per raccontare la passione per qualcuno che non si è ancora incontrato, i fantasmi di Fiona, anche quando nascosti, compaiono tra le righe, in absentia. Sono questa incertezza, questi continui scossoni di umore e questo tremendo bipolarismo che Apple sa raccontare meglio di qualsiasi altra cosa–e meglio di chiunque altro cantautore della sua generazione. La speranza si nasconde in versi che sembrano disperati: “And I know when I go all my particles disband and disperse / And I’ll be back in the pulse”. È un saliscendi continuo di downs e di ups. È la vita di tutti (gli esseri pensanti e non solo). “I spread like strawberries, I climb like peas and beans”, canta Apple in “Heavy Balloon”, sempre sballottata tra estremi. Non è semplice liberarsi del peso della depressione che, come un pallone invisibile, sta sulla tua testa e ti incurva le spalle e i pensieri. Nella trionfante “Relay”, capolavoro musicale che sembra salire dal centro della terra, la condanna alla società capitalistica a uso-e-consumo di chi offre di più è totale e tranciante. “Evil is a relay sport / When the one who's burnt / Turns to pass the torch”, canta Apple, che ha scritto quei versi quando aveva solo quindici anni. “I resent you presenting your life like a fucking propaganda brochure”, canta Apple, in una feroce critica nei confronti di un mondo ormai trasformatosi in un social network gigante.
Come dimostra il verso sulla “fucking propaganda brochure”, ci sono anche momenti leggeri, a volte persino comici, nel momento in cui si disvelano di fronte ai nostri occhi. Non c’è molto di poetico, dice Apple, riguardo al testo di “Drumset”: allucinata e straniante, con una ritmica splendida, fu scritta qualche tempo dopo la rottura di un rapporto e racconta di un’incomprensione avuta con la sua band. Il testo non è per nulla diverso da quello che Apple cantò al telefono quella sera. In parallelo, il disappunto di una storia finita espresso in “Rack of His”, composta per due relazioni diverse, si esprime anche in un verso evocativo e graffiante come “I thought you would wail on me like you wail on them, but it was just a coochie-coo-coo!”. Si tratta di risate a denti stretti, faticose, ma anche queste rappresentano momenti cruciali di un processo di formazione doloroso e angosciante.
Queste canzoni, si diceva, sono le pietre di una costruzione perfetta. E diventano, adesso, anche pietre d’inciampo. In greco antico il verbo σκανδαλίζω significa scandalizzare, recare molestia o inciampo e, al passivo, essere scandalizzati o subire molestie. Le pietre d’inciampo nei brani di Apple ci ricordano le molestie, le ingiustizie, gli scandali. Il machismo imperante e oppressivo è subito etichettato come figlio di un capitalismo malato che impedisce di raggiungere i propri obiettivi e di avere fiducia in sé stessi. La liberazione avviene sia nei testi sia per via musicale ed è soprattutto liberazione del corpo, come accade in “On I Go”, dove Apple riprende i canti Vipassana, un mezzo, per lei, per sentirsi in pace con sé stessa. Per questo album Apple ha voluto lavorare sul ritmo: i risultati sono eccezionali.
Le esperienze traumatiche si svelano sempre attraverso un’analisi accurata e precisa. In questo modo vengono fissate per sempre e diventano testimonianze, come una farfalla preistorica preservata nell’ambra. Per via del suo passato di abusi Apple si sente vicina ad altre donne abusate e sente il bisogno di affrontare la questione in maniera diretta. “For Her”, che Apple ha scritto poco dopo l’udienza alla Corte Suprema di Brett Kavanaugh, accusato di violenze sessuali da tre donne, è arida, atroce, tremenda, e leggere il testo, ascoltarlo cantato da Apple, ci rende testimoni di un’esperienza traumatica. Non c’è spazio per poter controbattere, le accuse di Apple non ammettono repliche. In “Cosmonaut”, scritta nel 2012 e registrata di nuovo per Cutters, dove è cullata la possibilità (o, meglio, la speranza) di una relazione per sempre, Apple mostra un certo disagio. Paragonando i due che stringono il patto a cosmonauti schiacciati da un peso, ancora una volta Apple ribadisce che non esiste vincolo che possa legarla o fermarla. In mezzo a una slide guitar sensuale e a percussioni incalzanti, sono descritti in maniera eccellente i pro e contro delle relazioni, e, anche se un po’ di ottimismo permane, in ultimo sembra evitata una risposta definitiva. Intanto, in silenzio, noi contempliamo. È in questo magma pulsante di momentaneo ed eterno che Fetch the Bolt Cutters risplende.
(Samuele Conficoni)