CALTIKI "Amazzoni"
(2020 )
E’ da una vita che inseguo caparbiamente il mito del disco perfetto.
Ne ho trovato qualcuno. Li conto sulle dita di due mani, ho quarantotto anni suonati. Compro dischi da quando ne avevo otto.
Il disco perfetto è un disco che non ha nemmeno una canzone che non mi piaccia.
Sono un ossessivo-compulsivo, mi do delle regole. Per piacermi, una canzone deve valere almeno un 7.
Se tutte le canzoni di quel disco valgono almeno un 7, allora è un disco perfetto. Faccio le regole così, come mi vengono (cit. Buck).
Questo non significa che il disco perfetto debba essere per forza epocale, memorabile, seminale (come dicono i critici, quelli bravi). Insomma: non è necessario che sia un capolavoro. Se hai voglia di riascoltarlo per intero – e ripetutamente - senza saltare nessuna traccia o provare fastidio se non ne salti una, allora l’hai trovato.
A volte qualcuno ci arriva vicino, altri vicinissimo. Ma sono pochi, pochissimi. Su cento dischi in ascolto c’è molta roba buona. Pochissimi dischi quasi-perfetti. Un paio. In media, nessun disco perfetto.
Ecco, questi tre signori romani che - con citazione sci-fi - si chiamano Caltiki (Tommaso Di Giulio, Giulio Filippini, Marco Montesano), nati nel 2017 e qui al debutto per Area Pirata Records con le dieci tracce di “Amazzoni”, ci sono andati vicino. Non sto dicendo di avere per le mani un capolavoro, ma non lo era neppure “Trinakristan” dei Giufà, che non più tardi di quattro anni fa riuscii quasi a consumare pure avendolo in formato mp3, fate un po’ voi.
Dieci pezzi intelligenti e mediamente folli buttano lì sassate r’n’r mischiate a gag varie e schizzi yéyé, il tutto condito da testi in cui a farla da padrone è una verve umoristica insopprimibile, capace di strappare più di un sorriso mentre scolpisce nella pietra una serie inesauribile di ritornelloni assassini.
Cioè: non solo goliardia, humour e lievità, c’è musica eccome. Mi ricordano a tratti i grandi Les Fleurs Des Maladives (“Il rock è morto” sta tra i dischi quasi-perfetti), che però oltre al r’n’r ci mettono sarcasmo e risentimento, elementi qua assenti.
Per dire: ho ascoltato “Marta” cinque volte di fila una sera verso le undici passate, quando già da mezzora avevo intenzione di sdraiarmi in branda a leggere Conan Doyle, ma questi tre tizi mi hanno tenuto sveglio per un altro quarto d’ora mentre mi cantavano in cuffia anche se il dottore dice che non esisti/.../Marta tu sei mia.
Il boogie di “Cindy”, il garage-rock di “Valentina”, le tentazioni glam di “Magenta”, il surf agitato di “Luna”: sa tutto di anni sessanta, di anni settanta, di balera, di quelle sere d’estate in cui mentre passeggi sul lungomare ti fermi ad ascoltare una band che suona in piazza, perchè sarai magari anche un tristone introverso che si guarda le scarpe, ma quello è sano rock’n’roll e ti viene da battere il piede anche se sei rigido come un menhir.
Cose tipo: sei come i rovi/ma ti mancano le more (“Francesca” in apertura, testo talmente geniale che andrebbe riportato integralmente), oppure: e cosa vuoi? Una pelliccia con le mie ciglia/lo zabaione con le uova di quaglia/un coro di usignoli ammestrati per farti da sveglia? (“Valentina”), ma anche Ti chiedo scusa/se ho preso i dischi con i soldi della spesa (“Lula”) o l’epico chorus – un larghetto beatlesiano - portatemi via/al mare non sono mai stato di gran compagnia/la spiaggia è pigra, la vita è magra/al mare ripenso all’inverno in cui sei andata via/com’eri Allegra/come una sagra che rende davvero memorabile – questa sì – il pop d’antan di “Allegra” sono solo alcune delle boutade meglio riuscite di un album che merita di rientrare nell’esclusivo club del disco quasi-perfetto.
Ah: non è un disco perfetto perché c’è un pezzo – uno solo - che proprio non mi piace.
Ma non vi dico qual è. (Manuel Maverna)