AIDAN BAKER & GARETH DAVIS "Invisible cities II"
(2020 )
Per Invisible Cities II, appena uscito per Karl Records, il chitarrista canadese Aidan Baker e il bassoclarinettista belga Gareth Davis ritornano a navigare nel mare procelloso e ambizioso della ambient elettronica con atmosfera da jazz camerale che già in passato li ha visti protagonisti. A due anni dal debutto, il primo capitolo di questo progetto, avvolgente e intrigante, i due continuano nel solco di questa tradizione, forti dell’ottima prova precedente e ancora più affiatati per questo nuovo capitolo.
Le sperimentazioni sonore di Gareth Davis, che in passato ha collaborato con grossi artisti del postrock, dell’avanguardia e dello sperimentale, tra i quali A-Sun Amissa, Elliott Sharp e Merzbow, si uniscono alle derive drone postmetal che fanno parte del retroterra del belga Aidan Baker, noto per la sua militanza nel duo Nadja, che è solo uno dei suoi tanti progetti. Influenze che all’apparenza possono sembrare lontane si fondono e arrivano a un punto d’incontro invitante, espressivo e infuocato. Invisible Cities I, uscito nel 2018, esplorò il lato più calmo di questo sound che i due artisti sono riusciti a creare. Nella calma apparente e meditativa che caratterizza anche questo secondo volume, registrato tra Berlino e Amsterdam, subentrano momenti di rabbia, straniamento e disagio che sembrano rappresentare l’alienazione dell’uomo nel mondo di oggi, quel che di cupo si nasconde dietro l’apparente normalità che chiunque vorrebbe ostentare.
Il tutto produce un disco difficile ma assolutamente godibile, ostico ma fruibile in qualsiasi situazione, un album che accetta i difetti del mondo e prova, anzi, a spezzarli. “Eyes” lavora sull’inconscio e sul suono gutturale e primigenio che emana l’universo dal giorno in cui è nato, in uno scavare a fondo che è spettrale ed estatico nel medesimo tempo. “Continuity” evoca spazi larghissimi, discese repentine e salite frenetiche, un sogno dove predatore e preda si scambiano in continuazione di ruolo. Rumori taglienti, quasi siderurgici, prodotti da Baker si innestano su un tappeto di altri suoni post-industriali e pianti clarinettistici che creano un sipario da film dell’orrore. L’album era, dopotutto, iniziato con “Hidden”, che inizia con una lunghissima caduta nel buio, nel cupo, nel morto, per poi virare improvvisamente in un clima di serenità, dove il sadismo e la violenza iniziali sembrano essere stati semplicemente accettati e non di certo eliminati dal mondo.
L’album, cinque brani lunghi che, come detto, a differenza del primo capitolo hanno ben poco di calmo, esplorano le ispirazioni e le biografie artistiche dei due artisti che formano questo progetto. L’influenza postmetal e industrial di Baker emerge specialmente in “The Dead”, pezzo a metà tra Sunn e Deafheaven, strumentale, che procede e si fa largo nel mondo tra distorsioni aggressive e fraseggi incostanti. Suoni che sembrano di pale di un elicottero emergono in un panorama di detriti e di fossili, sul quale anche il clarinetto, dal nulla, esce fuori e regala un poco di speranza. Dal forte gusto postmetal è anche la splendida “Eyes”, mentre “Continuity” è altrettanto industriale quanto vicina a un jazz da camera avanguardistico, dove è evidente soprattutto il retroterra di Davis, così come in “Names”, la conclusione pacifica e utopica dell’intero album, secondo atto di un progetto che ha mostrato un volto differente rispetto al primo capitolo, innovandosi e convincendo del tutto.
(Samuele Conficoni)