OvO "Miasma"
(2020 )
Cosa rappresentino, cosa vogliano essere, cosa intendano comunicare al mondo gli OvO forse sono tutte questioni che non hanno più nemmeno una così grande rilevanza.
Gli OvO esistono oramai da vent’anni, e benché agli antipodi dell’istituzionalizzazione sono comunque essi stessi una sorta di istituzione all’interno del microcosmo rovesciato che li ha partoriti: una bolgia degna di Bosch in cui sopravvivono detriti, grida, frastuono e un cupo sentore di patimento ad aleggiare sopra la spoglia mortale del cadavere della musica-as-we-know-it. Musica uccisa di continuo in un delitto reiterato ed imperfetto, inscenato all’infinito – proprio come nella Commedia – in (s)composizioni scheletriche, brutali, scabre.
Di album Stefania Pedretti e Bruno Dorella ne hanno pubblicati nove, ed almeno fino a “Cor Cordium” gli OvO sono stati più o meno un mostro dantesco. Era il 2011, e da lì in avanti qualcosa è cambiato. Il godimento quasi ostentato per quel distintivo estremismo ha in parte abdicato alla consapevolezza di non avere più nulla da dimostrare, unita alla libertà di gettare la maschera (letteralmente) e di proporsi in una veste nuova, senza per questo mutare in fruibilità la perversa natura di una cosa indefinibile.
Ogni disco degli OvO è in fondo uno scrigno di brutalità (studiata? Istintiva?) in cui ai vocalizzi luciferini di Stefania – spesso inintelligibili nel grammelot che li incornicia – ed al gracchiare scomposto ed asincrono della sua chitarra fa da contraltare il martellante incedere della batteria - anch’essa scarnificata e ridotta ai minimi termini - di Bruno.
Nulla più di questo, da sempre, con infrequenti, si direbbe innaturali concessioni a qualche episodica mutazione appena digeribile, umile ricerca di un punto di incontro tra angeli e demoni.
Più che su disco, gli OvO acquistano senso sul palco, ove la claustrofobia che suggeriscono trova reale dispiego e consona dimensione. Fanno paura, dal vivo. Spaventano, coi loro incubi privati narrati nella lingua universale ed incomprensibile dei dannati, che in fondo al tunnel sono poi tutti uguali, come le loro canzoni, che canzoni non sono quasi mai. O non erano quasi mai. Perché a partire da “Abisso” (2013) hanno schiuso il guscio, almeno un po’.
Il tempo smussa gli spigoli e cambia le cose, e pure “Miasma” - nel solco di “Creatura” e “Abisso” - procede sulla stessa falsariga di una comunione di intenti fra ascoltatore e ascoltato, connubio che mai prima era stato preso in considerazione. C’è molta elettronica, ed è confortante che il duo abbia trovato una via di uscita dal cliché.
Così, fra le undici tracce di questo nuovo capitolo, tra inglese, borborigmi, italiano, campionamenti e ben più di qualche ipotesi di musica vera e propria, la minuta vestale e l’uomo nero – oggi entrambi a viso scoperto - tessono la loro tela discostandosi quanto possono dall’oltranzismo cocciuto e fiero che ne decretò lo status di culto già negli anni dieci.
Il trittico iniziale, benché Stefania inietti malevola il consueto veleno, è sorretto da strutture mai così nitide ed afferrabili (“You living lie”, fra Al Jourgensen e Trent Reznor), pur se affogate nell’abituale marasma rumoristico. Da lì in avanti si affacciano sulla ribalta del loro teatro grandguignolesco Gnucci, al secolo Ana Rab, mezza serba e mezza svedese, scheggia impazzita tra schegge impazzite (“Testing my poise”), Gabriele Lepera degli Holiday Inn che sventra su una base da Suicide la frenetica “Burn De Haus”, e perfino gli Arabrot nell’inquieto declamare de “L’eremita”, sei minuti di incombente stasi che potrebbero provenire dai Massive Attack come dai primi dEUS.
Nel mezzo del cammin, come niente fosse, il growl minaccioso e plumbeo di “Psora” ficcato a forza in un sabba di urla sguaiate, la lasciva cadenza martellante di “Lue”, la stravolta allucinazione di “Incubo”.
La chiusura è affidata ai sei minuti e mezzo della title-track che vaga caracollando su una cadenza spettrale e catatonica resa ancora più lugubre da demoniaco sferragliare, da cupe note di pianoforte, da synth invasivi. Il ritmo si interrompe a due minuti dalla fine, i rigurgiti gutturali di Stefania - tra Pharmakon e Lingua Ignota prima ancora che Margaret e Kristin finissero la scuola dell’obbligo e molto prima che la critica le celebrasse - inghiottiti da un vortice elettrico dal quale rinascono e nel quale collassano fino allo stordente epilogo.
Gli OvO erano una porta sbarrata.
Ora sono una porta socchiusa, oltre la quale non ci sarà mai nulla di rassicurante. (Manuel Maverna)