DESERTA "Black aura my sun"
(2020 )
In quel tempo, quando il bambino era bambino, ed anzi quando bolliva nelle vene il sangue mio e m’innamoravo di tutto, c’erano sonorità e canzoni e band ai quali affidare smisurate preghiere ed il già stanco cor di giovane umbratile e lunatico. Saltuariamente, qualcosa di quella vita precedente torna a farti visita, ed è una festa.
Di fatto un progetto solista, Deserta è la nuova creatura di Matthew Doty (Saxon Shore, Midnight Faces), al debutto su Felte Records con le sette tracce di un’intima gemma per i nostalgici di certe atmosfere impalpabili e trasognate in voga per un decennio a partire dalla metà degli eighties e tornate oggigiorno ad innervare l’opera di non pochi epigoni dei fasti passati.
Già dalla copertina “Black Aura My Sun” sembra un disco della Creation o della 4AD, edificato su fondamenta di dream-pop, shoegaze, synth d’antan, chitarre effettate, voci sussurrate mascherate dietro nebbie colorate. Melodie che sovrastano tutto, in forma prima ancora che in sostanza: magari non memorabili, ma è l’intero impianto ad essere foriero di memorie, non certo i singoli episodi, in un insieme deliziosamente stordente, venato di un romanticismo tenue e fiabesco.
In apertura tutto è già chiaro e benedetto dal fato: “Save me” inizia come una riedizione di “Plainsong” dei Cure, con tanto di canto etereo che sa di My Bloody Valentine e Cocteau Twins, ma pure – per stare più vicini - di Silversun Pickups, con quell’amabile marasma che si fa saturo e ubriacante.
“Paradiso” – quasi una outtake di “Loveless” - è un campionario di tremolo, riverberi, sussurri, crescendo imponenti che rigonfiano una litania – nenia? Amorevole cantilena? - così docile da innalzare i cuori ad altezze dimenticate; è un ritmo motorik a condurre “Monica” dalle parti dei War On Drugs, prima di mutare nuovamente in una tirata da profondi anni ottanta, con bassi pulsanti ed echi di chitarra, preludio ai quasi sette minuti del rallentamento di “Hide”, culla di estatico rapimento ad un centimetro dai fratelli Reid più introversi.
E mentre “Be so blue” naviga nella bambagia di un synth-pop leggero come schiuma, “Black aura” chiude su un’aria da Cure con la melodia più pura e sfuggente dell’album, qualcosa che lambisce gli Ultravox di “Lament” e ti ricaccia agli albori di un suono, di una passione, di un pacchetto di emozioni che magari il tempo ha stemperato, ma che covano sempre sotto la cenere. (Manuel Maverna)