PICASTRO "Exit"
(2019 )
Clelia ed io ci lasciammo in un grigio pomeriggio di ottobre del 1994, dopo un paio d’anni di una strana storia – malaticcia e tossica in senso piuttosto stretto - che fece ad entrambi più male che bene. Doveva finire, o ci saremmo fatti ancora più male di così. Fu un addio di pochi minuti. Ci lasciammo di comune accordo, sotto casa sua, in via Eustachi, a Milano.
Passai i tre giorni successivi – avevo ventitre anni – chiuso in camera mia ascoltando musica classica. Liszt, Debussy. Ma in prevalenza Chopin. Provavo un sentimento che ho sempre amato: una dolce, carezzevole, struggente melanconia che ben si adattava al momento. Ero dispiaciuto, ma in fondo sollevato. Non saprei dire se più dispiaciuto o più sollevato, ma stavo insolitamente bene, inzuppato in una tristesse che mi coccolava come una madre fa col suo piccolo.
Ecco: l’ascolto di “Exit”, nuovo album dei canadesi Picastro a un lustro da “You”, ha avuto su di me lo stesso identico effetto, quello di un profumo indimenticabile, percepito ad anni di distanza. Evocativo, al di là dei dettagli. E’ un crogiuolo di minuta, distesa, dilatata mestizia dispensata in otto tracce nascoste alla vista, screziate da tutto quanto di triste la musica possa donare, ma declinate in un linguaggio sibillino, profondo, penetrante.
Mi ha ricordato quell’ottobre, ha riesumato diapositive di vita passata sepolta sotto la coltre polverosa dell’oblio. Strumenti ad arco, accordi minori, tonalità cupe, note di piano come lacrime. Un languore morbido, pervaso dalla consueta scrittura dimessa - affranta ma ipnotica - di Liz Hysen.
Cowboy Junkies e Lycia, Red House Painters e Nico, Dream Syndicate e Hanne Hukkelberg, Cocteau Twins e Carta, Stereolab e Coil. E molto ancora.
In “Exit”, la boutade geniale di Liz è la cessione delle proprie creature ad altri interpreti: i toni bassi e vibranti del violoncello di Nick Storring introducono “Mirror age”, sulla quale Tony Dekker dei Great Lake Swimmers (che si presta anche alla psichedelia cangiante à la Mercury Rev di “I spy”) scivola con un timbro femminile che imita Liz (sic!) in una cantilena rallentata da Low. Il crooning baritonale di Adrian Crowley muta in lied spettrale la cadenza gotica di “From come to speak”; la foga espressionista di Jamie Stewart (Xiu Xiu) rende “Blue neck” sordamente sinistra, strisciante e visionaria, fra i Radiohead ed il melodramma di Marc Almond (ah, quella coda...). In una serie infinita di trucchi e maschere, Alexandra Mackenzie (Petra Glynt) stravolge con una rilettura da teatro decadente la “(She’s in a ) bad mood” dei Sonic Youth: al posto degli strati di distorsioni elettriche disarmoniche ci sono il pianoforte sghembo di Liz e piccoli disturbi cacofonici. Il risultato è una sarabanda allucinata vagamente perversa, la stessa aria che si respira nelle figure contorte à la These New Puritans di “A trench”, affidata a Caleb Mulkerin (Big Blood).
Presenza occulta ma costante, Liz compare dietro al microfono soltanto nella dolente litania a due voci con Nick Storring di “To know” e nella straziante chiusura di “This be my fortune”, la sua voce appena accennata ingoiata da una parte centrale tesa ed incalzante prima di impastarsi con quella trasognata e sfuggente di Chris Cummings (Marker Starling) in un finale sospeso sul nulla.
“Exit” è come quelle giornate d’inverno nelle quali si va facendo buio alle quattro del pomeriggio, mentre piove incessantemente. E non sai dire perchè, ma in fondo ti senti contento. Lieto, in un qualche imperscrutabile modo. Dispiaciuto, ma sollevato. (Manuel Maverna)