recensioni dischi
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PETER IVERS  "Becoming Peter Ivers"
   (2019 )

Dando un’occhiata al New Wave Theatre, programma televisivo californiano che nei primi anni ’80 promosse il punk e la new wave, si può apprezzare la personalità teatrale di Peter Ivers. Togliendosi e rimettendosi i suoi occhiali da sole, Ivers conduceva il programma trasportandoti nella sua dimensione deformante, come un personaggio lynchiano. Non stupisce che uno dei suoi pezzi fu scelto proprio da David Lynch per il suo primo scioccante lungometraggio, “Eraserhead”. Il regista e il musicista condividevano un certo gusto per il surreale. Ivers morì nel 1983, e “Becoming Peter Ivers”, appena uscito per RVNG Intl., è una folta raccolta di canzoni prese da varie demo su cassetta. Una volta Ivers scrisse che “i demo sono meglio dei dischi”, perché più grezzi, più energici e diretti, senza i filtri di studio. In effetti, spesso è proprio così. Tra i 25 pezzi possiamo ascoltare la sua voce, che nel cantato si rivela sottile come quella che a noi italiani farebbe pensare a Ivan Graziani. C’è spesso e volentieri il ricorso all’armonica a bocca, ma gli ambienti musicali sono molto diversi. C’è la canzone d’autore acustica, il pop à la Supertramp (“Conference call at four”), il funk (“I’m sorry Alice”, “Miraculous weekend”), e tante canzoni asciutte e scarne che fanno proprio sentire che sono provini, come “Even Stephen Foster”, con voce e piano elettrico. Stessa cosa per “The night you didn’t come” e “Untitled”, di cui non esiste testo: Peter qui aveva in mente solo la melodia e la canticchia facendo “Ta ta ta”. Less is more, mai come in questo caso: lo straniamento di questi pezzi è efficace. Con “Deborah” c’è una virata in un rock abbastanza acido, con molta presenza di sax, e si va nello psichedelico con “Audience of one”. Piaceva proprio il wah wah di chitarra, che caratterizza anche “Alpha Centauri”. “I’ve seen your face” ha quella chitarra acuta e staccata che ricorda i Talking Heads, e un titolo come “My grandmother’s funeral” non lascia presagire che il brano sia invece sostanzialmente sereno. Un coro femminile racconta la morte mentre la chitarra fa degli assoli pentatonici. Ma non è cinismo: “She just forgave the pain”. Ma quando arriva il momento di “In Heaven (the lady in the radiator)” si sente che siamo di fronte al possibile singolo. Non a caso è proprio questo il pezzo voluto da Lynch per il suo film menzionato prima. Già il titolo, che prevede una signora nel termosifone, ci catapulta fra le allucinazioni. E l’armonica a bocca sul pianoforte diventa richiesta sperduta di comprensione, una domanda senza risposte. C’è tanto materiale frammentario, come “Love in flight (piano ouverture)”, un minuto e ventitré di pianoforte che chissà di che cosa sarebbe stato preludio. “Ain’t that a kick” ha le caratteristiche da sigla per programma tv dei suoi anni, con quei primi rudimentali fotomontaggi colorati, le scritte in sovraimpressione e le luci dei flash che durano più del dovuto. Un accenno di reggae con “Jamaica Moon” anticipa la beatlesiana “Happy on the grill”. Per “Window washer”, compare tra i credits la collaborazione col compositore Van Dyke Parks, che ha lavorato, tra gli altri, con i Beach Boys e con i Byrds. Sprazzi elettronici, suoni orchestrali e accordi magici per il testo di “You used to be Stevie Wonder”. C’è tantissimo, in questi 25 brani scelti, che ci restituiscono la ricchezza di una personalità scomparsa troppo presto, a 36 anni. La raccolta “Becoming Peter Ivers” dimostra il suo fermento creativo, che si sarebbe presto palesato in televisione, in qualità di conduttore. (Gilberto Ongaro)