7AM "Benefit for Iggy's shirt"
(2019 )
Il cuore l’ho lasciato lì, su “Everytime”. E’ la seconda canzone di “Benefit for Iggy’s shirt”, terzo album in tre anni per i 7AM, un trio sloveno del quale ignoravo l’esistenza e che ora amo come fossimo vecchi amici.
“Everytime” è – come dire? – una ballatona indie che mette in fila tutte le cose più classiche che ti aspetti da una ballatona indie. E’ un bel 4/4 dritto, né troppo veloce né troppo lento. Ha un basso tondo e pulsante che la prende per mano e la porta a spasso con un’andatura ciondolante e pigra. Soprattutto, affida le sue speranze al refrain, che è un fischiettare sì fanciullesco, ma anche vagamente malevolo. Sembrano un po’ i Bodega che imitano i Pixies.
Basso e voce appartengono ad una signorina mediamente bionda, che canta imbronciata e suona talvolta il suo strumento per accordi come il fu Lemmy Kilmister. Si chiama Anabel. Il chitarrista è Mico; Davor – che all’inizio non c’era - suona la batteria. La loro sala prove è in una fattoria, adiacente ad un porcile. Hanno una label, per la quale ovviamente incidono: si chiama Pigpower.
In trentotto minuti e dodici tracce infilano tutto il campionario di post-punk e indie-qualcosa già ascoltato un altro milione di volte, ma sentirglielo fare è così bello da lasciarti scordare tutto quello che sai e che vuoi reimparare da zero. Il canto è un misto di calcolato distacco, foga, urgenza, disagio. I ritmi sono concitati, non flettono mai. La chitarra è acidella, il basso potentissimo. Fanno un gran rumore. L’impressione generale che danno è quella di un sound DIY: si occupano in prima persona dell’intera realizzazione dei dischi, dal principio alla fine. Li paragonano ai Dinosaur Jr e ci sta, ma sono meno nevrotici e meno intellettuali. Sono ruvidi, grezzi, scarni, essenziali. Magari non avranno grandi canzoni, ma l’innata devozione naif verso un certo modo di fare musica li rende deliziosi.
La varietà dei brani è più o meno come quella di un qualsiasi album dei White Lung: quasi nulla.
Davor batte quattro, e via: tre accordi spesso in minore, cassa dritta, Anabel che si sgola sbilenca su un frastuono slabbrato, sporco, malandato che è una meraviglia. Butta lì nel microfono – che così a occhio le sta ad un metro buono - una manciata di ritornelli tipo quello di “Waste of time”, cinque parole ripetute fino alla nausea. In “Hurts so bad” sembra un po’ la Siouxsie punkettara di “The scream”, nei tre minuti scarsi di “Nothing left to say” gli Speedy Ortiz che giocano ai Sonic Youth. In compenso, “I don’t want to live like that” è uno splendore di rasoiata a duemila all’ora, identica a tutto il resto. Pure bliss, garantisco.
A tratti abbassano lievemente il tiro edulcorando il fiele: in “I can’t believe” e “I took what’s mine” canta Mico su ricami aspri del basso in area Cure, in “Your opinion” disegnano una canzone vera e propria che ricorda le Sleater-Kinney, in “At least I tried” sembrano proprio J Mascis & soci prima che il pezzo diventi un ubriacante bailamme per distorsioni assortite ed urla belluine.
Se andate sul loro sito e – illusi! – cliccate su “about” per saperne di più, troverete sei righe nelle quali vi parleranno del nulla, o di tutto, a seconda dei punti di vista. Anche questo fa parte del loro teatro, che forse tanto teatro non è. Personalmente, ringrazio i ragazzi per avere regalato trentotto minuti di vecchie emozioni ad un uomo di mezza età che non perderà mai il vizio per certa musica.
So poche parole di sloveno, giusto perché ci sono appena stato in vacanza: grazie si dice hvala. E allora hvala, di cuore.
Mamma mia, che goduria. (Manuel Maverna)