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NICK CAVE AND THE BAD SEEDS  "Ghosteen"
   (2019 )

Due. Due come il doppio album che ci apprestiamo ad ascoltare e due, ancora, come le facce di Nick Cave. Un doppio, quello dell’artista australiano, da non intendersi come un album variegato in cui si alternano brani forti, intervallati a ballate strazianti, ma un duplice modo di presentarsi: da un lato la bestia inferocita dei concerti e, dall’altro, il padre capace di piangere e raccontarsi nel dolore per la morte del figlio.

“Ghosteen” nasce decisamente a sorpresa, annunciato, quasi fosse stato uno scherzo, in quelle lettere che Nick Cave iniziò a scambiarsi con i fan (spesso di giovanissima età) in cui ci si raccontava e ci si metteva a nudo. E così, dietro una copertina floreale che ci riporta ad un clima di pace, tra prati verdi, cavalli bianchi, leoni e altri animali (quasi i sopravvissuti dell’Arca di Noè) e cieli sereni in cui penetra un raggio di luce abbagliante (divina?), scopriamo il successore di “Skeleton tree”.

Ascoltandolo, “Ghosteen”, non possiamo non considerarlo il capitolo due del dolore. Un progetto musicale nato quasi per espiare ed esorcizzare la tragica morte del figlio. Se “Skeleton tree” era il primo canto in cui Nick Cave metteva in musica e parole i suoi stati d’animo, in “Ghosteen”, l’australiano sembra sforzarsi nella ricerca di un po’ di pace (sarebbe troppo parlare di serenità), comunque nell’instancabile ricerca del figlio e di un dialogo forse impossibile con lui.

L’anteprima mondiale del nuovo lavoro, spiegava le intenzioni della band: una prima parte composta da canzoni che rappresentano i figli, ed una seconda, intervallata da una pausa e da una introduzione, in cui le canzoni rimanenti rappresentano i genitori.

Le canzoni riprendono il clima sonoro già sentito in “Skeleton tree”. Dimentichiamoci le cavalcate marchio di fabbrica dei Bad Seeds, qui le chitarre sono solo accennate e diventano un piccolo contorno, mentre la parte del leone è giocata dalle tastiere, dal pianoforte e dai cori che contribuiscono a rendere etereo il contesto sonoro; in mezzo a questo, la voce di Cave, ispirata e carica di dolore (“I’m waiting for you”). Un lavoro certamente non facile da apprezzare al primo impatto, ma un disco che, ascolto dopo ascolto, è capace di catturare perché intenso e profondo. Mai come in questa occasione i Bad Seeds si sono messi al servizio di Cave, rinunciando (con la sola eccezione di un imponente tappeto di synth) a virtuosismi di sorta o interventi barocchi, dimostrandosi una delle migliori band in attività.

Quando commentai “Skeleton tree” finii dicendo che era difficile considerarlo un album musicale, apparendo quasi una veglia funebre. A distanza di poco più di due anni, potrei confermare la mia interpretazione, aggiungendo l’idea che, di quel lutto, “Ghosteen” ne rappresenta, di conseguenza, l’Anniversario.

Ritengo che l’ultimo album a cinque stelle dei Bad Seeds rimanga “Push the sky away”. Ma questo è un discorso di gusti musicali, e in certi casi la musica deve lasciare il posto ad altre cose… e quindi va bene anche un “Ghosteen” tra la nostra collezione di dischi. (Gianmario Mattacheo)