recensioni dischi
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SIROM  "A universe that roasts blossoms for a horse"
   (2019 )

A due anni di distanza dall’ottimo “I Can Be a Clay Slapper”, sono tornati i Širom, sicuramente fra le più originali band slovene di questo periodo storico. Ascrivibili sinteticamente alla voce folk, i Širom sono soliti anteporre l’aggettivo “imaginary” per raccontare il proprio sound e la scelta appare corretta oggi anche più che due anni fa. “A Universe that Roasts Blossoms for a Horse”, appena uscito per Glitterbeat/Tak:til Records, riparte dalle certezze del passato: una strumentazione ricca, che omaggia anche tradizioni musicali lontane e che rende necessaria la pratica della sovraincisione, e voci a fare soltanto da contorno durante lunghe cavalcate dal beat irresistibile. I pezzi sono solamente cinque, come sempre cangianti e multiformi, a comunicare un senso di divertissement che resta elemento chiave nella scrittura dei nostri. Apre “A Washed Out Boy Taking Fossils from a Frog Sack”, fra allucinazioni psichedeliche e caos, ma il disco entra davvero nel vivo con il mellifluo banjo di “Sleight of Hand with a Melting Key”, che scivola dolcemente verso sonorità orientaleggianti e qawwali, evocando proprio il senso di spiritualità dell’arte sufi. “A Pulse Expels its Brothers and Sisters”, percussiva e distorta, conduce verso un rituale ancestrale vagamente oscuro, ma la stessa malinconia resta in “Low Probability of a Hug”, con la quale veniamo riportati ancora in una zona grigia fra subcontinente indiano e Medio Oriente, in chissà quale epoca. A “Same as the One She Hardly Remembers” spetta l’ingrato compito di suggellare un album che, a questo punto, dovrebbe aver già rapito il cuore: l’atmosfera è sospesa e l’ambientazione più che geografica si fa onirica, in un tripudio di archi che accompagnano il banjo classico e quello a tre corde, oltre agli elegantissimi ricami etnici. Da due anni i Širom confessano di voler fare musica che non suoni come qualcosa di già esistente, e la sensazione è che ci siano riusciti un’altra volta, con la stessa classe e la stessa grazia dell’esordio. (Piergiuseppe Lippolis)