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CADORI  "Emisfero australe"
   (2019 )

Dopo avere doverosamente ricordato che nemmeno due anni fa “Non Puoi Prendertela Con La Notte” fu disco dell’anno su queste stesse pagine (disco dell’anno, faut se le dire), potrei cercare di descrivere con belle parole le molte sfumature dell’arte varia di Giacomo Giunchedi, partendo dagli esordi acerbi con l’alter ego Ian Vincent; saltando all’elettronica infida del più strutturato progetto a tre Torakiki; arrivando infine a Cadori, ultimo travestimento di scena, incarnazione forse duratura – se non definitiva – di un talento tanto riposto e schivo quanto autentico.

Credo che la musica di Giacomo Giunchedi – abruzzese classe ’85, trapiantato a Bologna dove vive e lavora – possieda qualità misteriose. Taumaturgiche, perfino. Una sorta di incantesimo, un numero di illusionismo, una insolita via verso la trance estatica, qualcosa di mistico, chissà. Pubblicato per Sussidiaria Music di Daniele Carretti (oggi Felpa, ieri membro storico degli Offlaga Disco Pax) e per Cane Nero Dischi, introdotto dallo splendido artwork di Elena Guidolin, “Emisfero australe” è il terzo album sotto il moniker Cadori, nuova tappa in un percorso di immutata fedeltà alla linea.

Rispetto all’ esordio del 2014 ed al già citato album del 2017 la traiettoria non muta, il progetto artistico rimane improntato alle medesime consuete direttrici: caracollando catatonica sul filo di un intimismo ambivalente, una musica psicologica ed implosiva – strisciante, subdola, surrettizia – si fa strada morbida, ma sottilmente inquieta. Di rado lievita, preferisce sviluppare solo lateralmente i temi che accenna; non deflagra, rinuncia ai ritornelli, si cela dietro apparente freddezza, senza sbalzi o impennate.

Eppure non è musica avanguardistica, sperimentale, concettuale, astratta. Segue schemi quasi matematici. Elettronica, di base, ma con la chitarra in un ruolo di contrappunto fondamentale. Non mostra ascendenze teutoniche, né albioniche. Non di Fennesz, Aphex Twin, James Holden, Matthew Barnes pare figlia, ma più – nemmeno così assurdo - dell’ultimo Battisti.

Segnato come sempre da una insistita indolenza, “Emisfero australe” procede attraverso atmosfere dilatate, nebulose, tremanti. Arie diafane ed impalpabili si muovono in cerchio, avvolgendosi come spire di fumo attorno al canto di Giacomo, che è a volte un falsetto, altre poco più di un sussurro al servizio di brevi testi evocativi, intensi, suggestivi, vagamente ermetici.

Alla radice, pattern ritmici tracciati dalla drum machine. Sopra, synth e campionamenti vari. Sopra ancora, chitarra elettrica. Sopra tutto, voce: mai in primo piano, come venisse da dietro una tenda, come non volesse disturbare, o come volesse farsi sentire senza essere del tutto compresa. Album notturno che giunge ovattato, mentre il mondo dorme e un lieve lallare – confortevole? - si insinua nel tuo sogno. Qualcosa traspare e riluce: disillusione, un fioco livore, astio trattenuto (“Elicottero”, “La nostra piccola guerra nucleare”). O solo la manifestazione esteriore di un animo riflessivo e meditabondo.

Al diavolo mode, tendenze, logiche di mercato: infischiandosene bellamente, apre l’album con “Rosae”, otto minuti e mezzo trattenuti e rinviati come un orgasmo, col ritmo che si lascia andare dopo oltre tre minuti di esitazione in timido crescendo, le poche parole soffiate all’orecchio altri due minuti più tardi: “Come tutto si fosse già fuso in una eterna notte/ mi sorridi e poi provi a prendermi/ ma la tua mano si confonde”. Fine su un giro di chitarra in maggiore ripetuto ad libitum.

Dura in tutto circa ventidue minuti questa ubriacante stasi narcotica e fiabesca, come fumare narghilè nel buio, intravedendo ombre attraverso la dilatazione di “Speciale” (quasi - a tratti - i My Bloody Valentine più eterei) ed il piccolo martellamento insistito di “Tamimi”. Poi arriva “D’estate”, specchietto per le allodole, inganno estremo. Su un 4/4 gentilmente martellante da disco-pub agostano va in scena un trucco magistrale e beffardo, sagra di dissonanze e canto lievemente asincrono, come fosse fuori asse.

Da lì in avanti il clima muta, ma in modo quasi impercettibile: le atmosfere rimangono identiche, sebbene qualcosa di più irrequieto si agiti sotto la superficie. Tutto secondo i piani, o forse no: il soft-core morboso della title-track, l’amarezza di “Lanzarote”, la forma-canzone di “Ombre facili” - una pizzica rallentata per effetti e droni elettrici? – e perfino l’oscura trama in minore di “Impossibile”, tanto mesta che mi ricorda gli Ultravox di “Lament”, tanto desolata e dolente che mi andrebbe di abbracciarla. Peccato, è solo una canzone.

In coda restano i sette minuti e mezzo di “Elena” a riportare tutto a casa sull’ennesimo ripiegamento introverso, ingoiato da una frase di chitarra che si dissolve come brina. Un requiem, forse. Un ricordo sbiadito. O un pensiero che muore all’alba.

Sei in un mondo dove non provi più nessun dolore/nei tuoi occhi dove c’è per ogni cosa il suo colore/sei in un mondo dove non provi più nessun rancore/in un attimo vedrai come cambiano le cose/se ti spingi ancora là scoprirai che tutto è uguale/che l’unica cosa che fai è continuare a respirare”.

Ma l’alba è lontana. Fuori, è notte e silenzio. (Manuel Maverna)