ALE HOP "Apophenia"
(2019 )
Dopo l’ascolto di tanti field recordings, possiamo dire una cosa generica: ogni assemblaggio di suoni presi da terre lontane, non consiste in una ricerca scientifica, in un report fedele di un’ambientazione, bensì racchiude un elemento personale di ricordo, non per forza nostalgico, ma comunque un’interpretazione arbitraria della realtà. Questo vien da pensare ascoltando “Apophenia” di Ale Hop, appena uscito per Buh Records. La musicista peruviana, di stanza a Berlino, unisce in Germania determinate memorie sonore sudamericane, mescolate in un modo tale da non farsi riconoscere nella propria geografia. L’elettronica sperimentale, e l’utilizzo non convenzionale della chitarra, elaborata pesantemente nella timbrica, danno ad Ale Hop la possibilità di esprimere una strana concezione dell’ambient. I rumori, anche i più pungenti, non sono aggressivi, ma disposti in modo da avvolgere e creare una narrazione astratta di eventi, dai tempi anche piuttosto incalzanti, nonostante i battiti lenti di episodi come “El beso”, dove si raggiunge una sequenza armonica, emersa dal solo ed esclusivo noise. Impossibile fermare il flusso da una traccia all’altra per poter fare una analisi oggettiva, il senso critico viene meno, soprattutto con “Lima”, guarda caso il pezzo con il nome della capitale del Perù, dove Ale Hop visse “tempi incerti”. Tra spari, pad drammatici, crescendo di lunghe note che simulano la solennità del corno francese, siamo immersi in un non luogo dove disorientarci. L’espressività raggiunta è notevole, senza l’ausilio di alcuna parola. Ma la voce si fa sentire, modificata e inquietante dapprima in “Side effects”, accanto a bassi violenti, poi sdoppiata, bisbigliata e mitragliata in “Onomatopoeia”, dove sembra di stare in un’atmosfera liquida, con tanto di bolle verso la fine. La chitarra si fa riconoscere in “Punales”, impalpabile clima stoppato ma stabile, con dei suoni elettronici stranianti che rincorrono gli acuti dell’armonia. Un discorso unito meritano il brano iniziale “Augury” e gli ultimi due di chiusura, “Apophnia (cielo azul)” e “Marches”. L’album inizia e termina con il noise protagonista, con rumori metallici che, dopo una fase iniziale di pad, veniamo lasciati soli con questi impulsi che paiono insetti svolazzanti. In “Apophnia” questi impulsi ritornano molto più distorti, fino a provare disagio, per lasciarsi sfumare verso la fine, senza una riappacificazione, ma solo con l’oblio. Torna tutto in fade in con “Marches”, mentre l’impulso più grave rimbalza minaccioso, come quei vecchi square di Aphex Twin, mentre i battiti dal suono di tubo tessono una danza surreale. “Apophenia” è un lavoro disturbante ed affascinante allo stesso tempo. (Gilberto Ongaro)