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TAXIWARS  "Artificial horizon"
   (2019 )

Gran disco, questo.

Dice cose vecchie in un linguaggio nuovo, o forse viceversa, ma resta una bella botta.

Attori: Tom Barman (voce), Robin Verheyen (sax), Nicolas Thys (basso) e Antoine Pierre (batteria), tutti belgi, tutti jazzisti, ivi compreso Barman, frontman e mente dei dEUS, una inveterata passione per il jazz al servizio di una intensa attività musicale (Magnus), compilativa (curatore di raccolte per le storiche Blue Note e Impulse!) e perfino cinematografica (regista di “Anyway the wind blows”).

Le coordinate di “Artificial horizon”, pubblicato per Sdban Ultra e sèguito del debutto “Fever” (2016), portano ad almeno un paio di sorgenti: in primis quella vena tra cinema/slackness/dadaismo/suggestioni noir/sincretismo dei dEUS; poi il jazz-for-the-masses che tanto sta spingendo di recente, dal folgorante “Burn”, debutto del 2013 per i Sons Of Kemet di Shabaka Hutchings col suo intrigante affaccio sulla ribalta del mainstream, fino all’acclamato “The Epic” di Kamasi Washington, anno del Signore 2015.

Senza bisogno di forzature, “Artificial horizon” si potrebbe collocare alle sessions di “Worst case scenario”, con Barman in guisa di un Mark Lanegan alle prese con incursioni in territori (conta)minati, lande di frontiera che miscelano progressioni jazz (ovviamente), recitativi a metà tra lo spoken word e l’hip-hop sottolineati dal sax di Verheyen, esplosioni repentine e drumming spezzettato e singhiozzante a delineare il perimetro di un album cangiante e depistante.

Il crooning vagamente malsano, arrochito, tra piano-bar e varietà da vecchia Bowery, è a tratti meravigliosamente oscuro ed evocativo nello shuffle fumoso con ascendenze wyattiane di “Irritated love”, imperioso nella sua insondabile abilità di cavare dal nulla – spesso muovendo da una ritmica asciutta – ritornelli memorabili e linee melodiche inaspettate (“Different or not”, quasi gli Steely Dan). I quattro pescano così dal mazzo vestigia dei Morphine e piccole contorsioni à la The Comet Is Coming (“Safety in numbers”, groove insistito e sax nervoso), con ritmi che sembrano prendere il sopravvento, salvo lasciarsi risucchiare poco a poco da un’armoniosità sottile, nascosta sotto la superficie e portata allo scoperto solo gradualmente.

La chiusura dimessa e lontana di “On day three” suggella su un’aria ingrigita e diafana un lavoro di rara raffinatezza, ricercato ed intimo al contempo, una narrazione veicolata dalla ghiotta sintesi di istanze post-cantautorali di colta eleganza.

Ennesimo ibrido da nuovo millennio o solenne promessa di ulteriori, impredicibili sviluppi? Per ora un’ardua, stimolante, futuribile impresa: proseguire nello sdoganare un genere tutto sommato elitario e complesso, chissà in quale altra direzione prossima ventura. (Manuel Maverna)