recensioni dischi
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GROSS NET  "Gross Net means Gross Net"
   (2019 )

Non è fine a sé stessa la composta eleganza che pervade le dieci tracce di “Gross Net Means Gross Net” – appena uscito per Felte Records, titolo polemicamente allusivo con bersaglio Theresa May -, secondo album per l’artista nordirlandese Philip Quinn, originario di Belfast, già nei Girls Names dal 2012 e titolare della sigla Gross Net dal 2014.

A veicolare l’aspro dissenso espresso nei confronti della situazione politica d’Albione (e non solo) sono sonorità ed armonie oscure, al crocevia fra un’elettronica docile e suggestioni mutuate dalla musica classica come dalla contemporanea (“Shedding skin”); minaccioso e strisciante in un suo modo infido, l’album dipana una matassa complessa per il tramite di un’esile melanconia, spalmata su un’ossatura fragile e diafana, ma capace di slanci emotivi inattesi (l’ossessione da incubo della conclusiva “Social Nationalists”) come di continue implosioni.

Incursioni in limitrofi territori di confine conducono ad una qualche landa desolata tra Matt Howden, These New Puritans e perfino blandi rimandi formali agli ultimi Massive Attack, mentre il crooning ipnotico di Quinn screzia lullabye sì stralunate (“Dust to dust”), ma cullate in una bolla di trasognata, sospesa alterità.

Straniante e allucinato, vaga cesellando melodie pulsanti (“Gentrification”), rallentamenti mistici, nenie rapite ed estatiche che narrano di un qualche altrove tra tessiture espanse, dilatazioni e riverberi, giungendo a lambire l’obliquo snobismo dei Japan (“Of late capitalism”) o l’inafferrabile trascendenza degli ultimi Coil (“World of confusion”).

Liquide pulsioni si allargano in onde dense tra synth, effettistica variegata e pattern ritmici raggelanti, culminando nel baritono catacombale della sopraffina lamentazione dissonante e scomposta – al contempo sublimazione e consacrazione di un discorso/percorso profondo e strutturato - di “The indignity of labour”.

L’effetto complessivo è spiazzante e mesmerizzante, inzuppato in un registro mellifluo tra rigurgiti sparsi di ambient-noise e detriti smussati di matrice post-industrial miscelati ad uno spleen che sa di pop cameristico risciacquato in acque kraut: elementi eterogenei che compongono un mosaico in apparenza sconnesso e di difficile lettura, morbido come ovatta se visto attraverso il prisma offerto in dote da Quinn.

O forse è tutto un trucco, un trompe l’oeil meravigliosamente celato sotto le mentite spoglie di una musica non così accomodante, né amichevole o conviviale. (Manuel Maverna)