recensioni dischi
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THE WINSTONS  "Smith"
   (2019 )

La bellezza di questo disco e dell’intera operazione Winstons – come si diceva un tempo: un supergruppo formato da Enrico Gabrielli, Roberto Dell’Era e Lino Gitto, dei quali nemmeno parlo dandone per scontata una certa riposta notorietà – sta nel riuscire mirabilmente a proporre canzoni che sembrino realmente vecchie.

E’ un complimento, ma mi è riuscito male. Mi spiego.

C’è non poca differenza tra una foto di cinquant’anni fa ed una foto attuale alterata con photoshop per farla sembrare una foto di cinquant’anni fa. Ecco: The Winstons - tre geniacci, sottolineo - danno in pasto agli astanti musica anni ‘60/’70 come se fosse concepita e registrata negli anni ‘60/’70, mentre sei davvero negli anni ‘60/’70. Tu e loro. In una foto di cinquant’anni fa. Altro che revival, omaggio, citazionismo, ecc.

Fin qui il gioco.

La realtà è invece che in “Smith”, secondo album a tre anni dall’esordio, tutto è retrodatato: i suoni, gli arrangiamenti, la scrittura dei pezzi, l’uso degli strumenti, le armonie caratterizzate da tanti - ma proprio tanti - passaggi che profumano di antico. E il suono tondo e suadente del basso, il suono secco e asciutto della batteria, il suono liquido e cangiante delle tastiere (non parlo di chitarre, perchè dichiaratamente le rifuggono, se non in sporadica veste acustica). E’ tutto vintage, come in una perfetta replica fra tardi Beatles e massicce dosi di Canterbury. Cori, fiati, tamburelli, spettri, divagazioni zappiane (“Tamarind smile/apple pie”) si susseguono incessanti in un gioco di rimandi e incastri a dir poco pregevole. E complesso, a suo modo: è una dimensione la cui stravagante alterità richiede impegno e dedizione.

Ovunque, trucchi e malizie assortite: inizia in punta di chitarra “A man happier than you” (con Mick Harvey dei Bad Seeds), mutando in uno slow pinkfloydiano; ha un’aria da spy-story “No dosh for parking lot”, mentre “The blue traffic light” vaga fra suggestivi tropicalismi evocando scenari sci-fi. Fedelissimi alla linea anche quando la linea non c’è (quasi) più, offrono una rispettosa cover di “Impotence” dei Wilde Flowers (Robert Wyatt agli albori) con cameo di Richard Sinclair dei Caravan; ospitano Nic Cester dei Jet in una “Rocket Belt” che è languida delizia con quel basso dub; infilano una “Blind” che potrebbe essere una outtake di “Rock bottom”; iniettano sentori jazz e derive progressive in “Soon everyday”, dove sembra di ascoltare – scherzo spazio-temporale - i Libertines che cantano i Koop. Ma cinquant’anni fa, se non si fosse capito.

“Smith” è un affascinante rebus che attirerà chi già ama Calibro 35 – ovvio – e C’mon Tigre, ed in generale, I presume, intellettuali, musicisti, retromaniaci e palati fini.

Poi, potrà non piacere affatto: ma è strabiliante il tocco fatato con cui ti porta a spasso in un altrove quasi mistico: sarà forse un esercizio di stile, ma a tal punto appassionato da inghiottire ogni remora o naturale ritrosia ad accostarvisi. (Manuel Maverna)