ALOSI "1985"
(2019 )
Hai qualcosa di rock da darmi, direttore?
Mancano, dischi così.
Elettronica, pop, metal, post-qualcosa, jazz addomesticato, contemporanea, neoclassica, avant, punk vecchio e nuovo, country & folk, Americana, perfino trap che in fondo non è male, cantautorato allineato o dissidente.
E?
Hai qualcosa di rock da darmi, direttore?
Nel mare magnum – italico in primis – a volte sembra latitare del sano rock. Di quello privo di fronzoli. Dritto al punto. Scarno, diretto, squadrato. Fatto di canzoni essenziali, ruvide, efficaci. Qualcosa che vada al nocciolo della questione senza troppo divagare né perdersi in arzigogoli. Muscolare, sudato, urlato. Fisico.
Già ai tempi d’oro del Pan Del Diavolo, ben noto duo palermitano di cui era voce e chitarra, Pietro Alessandro Alosi non traccheggiava: in quel feroce marasma di folk sfigurato à la Violent Femmes – seppure con molte correzioni – stava tutta l’urgenza di un progetto tanto anomalo quanto strabiliante nella sua sorprendente novità.
“1985” è l’esordio solista per La Tempesta sotto la sigla Alosi, con la collaborazione di – tra gli altri – Luca Di Blasi (La Colpa) alla chitarra e Ugo Cappadonia (Stella Maris) al basso. Disco duro, aspro, dolente a tratti.
E triste, in qualche angolino buio: come nella title-track, ballatona elettrica sparata in apertura, dichiarazione d’intenti e singalong immediato che si inchioda in testa. O crudo e dispettoso in “666”, acida ed esitante, sviluppata attorno ad un giro di basso incupito ed insistente; quasi indignato in “Hotel”, bordata pessimista e stordente; semplice nella disarmante schiettezza de “La mia vita in tre accordi”.
Anche quando predilige un registro più riflessivo – l’intro pianistica e l’umore sconsolato di “Rumore”, la meditativa “Di nuovo”, scossa da un finale drammaticamente intenso - conserva intatta una naturale inclinazione rock. Qualcosa che pulsa e striscia sotto la superficie, pure quando il ritmo rallenta e affiorano melodie e atmosfere più rilassate ed intime.
Ma la vocazione autentica di “1985” è nel passo accelerato di “Imparare a cadere”, sassata indisciplinata che sa di Afterhours primordiali, o nella mitragliata di “Destinazione Marte”, una botta incattivita che mi ricorda – con gioia rock, fino alla deflagrazione conclusiva - la prima Giorgieness. O nella rasoiata di “Comete”, capolavoro minore che mette in fila tutto: riff, chorus e testo amaro in tre minuti e mezzo tesi e affilati che in mano a un Bob Mould farebbero gridare al miracolo.
E’ il preludio a “Solo e vivo”, cadenza dimessa che dispensa al rallentatore cinque minuti di ordinaria afflizione, commiato che ci mette la faccia, ma che non sa di sconfitta: su e giù come le altalene/ le nostre vite passate/ a curarci le ferite/ quelle meritate.
Un bilancio, una constatazione, forse un nuovo inizio. Certo non una resa: ché non sarebbe rock. (Manuel Maverna)