GOODBYE, KINGS "A moon daguerreotype"
(2019 )
Altro che post-rock: troppo facile appiccicare l’etichettina-bella su qualsiasi cosa preveda brani strumentali con prevalenza di elettricità, crescendo tesi, deflagrazioni nervose, melodie sfuggenti screziate da schegge di subitanea violenza eccetera eccetera.
“A moon daguerreotype”, terzo album dei Goodbye, Kings, band di sette elementi formatasi a Milano & dintorni nel 2012, potrebbe indurre in errore e finire incasellato alla voce di cui sopra: in realtà è molto di più, una cornucopia di stili e idee remiscelati in fogge inusuali, con esiti imprevedibili.
Vero che offra ai coraggiosi e disponibili commensali tutto il ricco menù sopra riportato, ma innegabile che aggiunga al canovaccio la correzione determinante di tessiture mutuate dal jazz. Che poi oggigiorno, all’acme di contaminazioni perduranti da un paio di decenni, questa operazione di insistita ibridazione fra disparate istanze tenti pure l’abbordaggio al jazz è cosa risaputa, dai Sons Of Kemet a Kamasi Washington tanto per citare due nomi in vista. Emblematici gli otto minuti di “Méliès the magician”, aperti da una muraglia di feedback - My Bloody Valentine + Flying Saucer Attack –, sublimati da una garbata incursione del sax, sfregiati da chitarre che inghiottono timide note di piano. Potrebbe già bastare, ed è solo la seconda traccia.
Ma “A moon daguerreotype” è segnato pure da certo minimalismo à la Philip Glass (ascoltare – prego – le piccole meraviglie di distillata rarefazione di una superlativa “Drawing with light”, che nasce dal nulla e nello stesso nulla muore sospesa), da miti e temperate suggestioni prog corrette in veste elettronica (“Giphantie”, oscura ed ossessiva come un piccolo incubo da soundtrack noir anni settanta. Crossover temporale? Qualcosa tra Piero Umiliani e i Ronin, azzardo), da profanazioni in territori neocameristici (“Phantasma”). Concept muto sulla sproporzione tra fragile umanità ed enormità del cosmo – di cui la luna del titolo è parte per il tutto – è un album conturbante, ammaliante, sottilmente complesso, ma di una complessità che ne accresce il fascino anziché respingere.
I cinque minuti rallentati di “The ancient camera of Mo Zi” toccano vertici di inusitata purezza veleggiando su un’aria mesta e dimessa che ricorda certe trame targate Nuccini/Reverberi, preludio al quarto d’ora della title-track in chiusura. Che è una suite inquieta quasi pinkfloydiana, inafferrabile e sfuggente tra echi di Radiohead e scariche elettriche da Mono, summa che riepiloga, ingloba, rielabora ogni ipotesi formulata in precedenza fino al pomposo, teatrale epilogo, quasi una miniatura di rock opera.
Altro che post-rock: è diverso l’abbrivio, diverso l’approdo. Diverso tutto.
La materia è avant, va detto: ma in un modo curiosamente digeribile, mai algido, appassionato e perfino appassionante. Un magistrale coup de théâtre lungo cinquanta minuti, inesauribile nel prolungare all’infinito la sorpresa, la magia, lo stupore. (Manuel Maverna)