recensioni dischi
   torna all'elenco


WE MELT CHOCOLATE  "We Melt Chocolate"
   (2019 )

Voglio immaginare che non sia successo nulla, nel bene o nel male. Con tutto ciò che di bello ho visto – e sono fortunato – provo piacere talvolta al solo pensiero di ciò che era e ciò che è stato.

Voglio immaginarmi mezza vita fa, rivivere momenti persi nel tempo come lacrime nella pioggia, eccetera.

E riascoltare una musica che ha segnato un’età, un percorso, un tempo della vita che chissà oggi dov’è.

Ma esiste ancora da qualche parte, fosse anche solamente in un suono di chitarra, in un modo di scrivere e di cantare, in una bolla fatta di desiderio, malinconia, memoria, sensazioni sparse.

Grazie ai We Melt Chocolate, cinque anime anacronistiche di una bellezza così trasparente e sincera da riportare tutto a casa semplicemente citando – o prendendo a prestito – modelli cristallizzati e antichi, ciò è possibile e maestosamente reale. E’ vera e vivida la linfa che scorre nelle otto tracce del debutto della band fiorentina per Annibale Records, un disco da assimilare e digerire prendendolo in blocco: quarantotto minuti (nessun brano sta sotto i cinque) di puro e semplice shoegaze virato dream-pop con tutti i crismi che si convengono.

In primis, la voce celestiale di Vanessa Billi in perfetto equilibrio tra Bilinda Butcher e Elizabeth Fraser, un sussurro flautato che spunta da muraglie diafane di riverberi noisy garbati e composti: deliziosa sia quando prende la scena dopo la lunga intro strumentale dell’opener “Let go”, sia nella deflagrazione controllata del singolo “Everjoy”, sia nella docile ballata nostalgica di “Blue hair girl” con la sua apertura melodiosa così desolata. Prevedibile? Memorabile.

Impieghi un paio di minuti a capire che non vuoi di più. Il resto va da sé, come stare a guardare un fiume che scorre, o le onde infrangersi sugli scogli. Ipnosi che vorresti non finisse mai, come nella coda satura di “Wishful” o nella morbidezza pallida di una “Orange sky” che richiama i DIIV. O come nel commiato svenevole dei sette minuti di “Golden eyes”, ingoiato in una chiusa rigonfia di pathos e sfuggente mestizia.

C’è poco da dire, poco da aggiungere: è un meraviglioso inno del perdersi, senza picchi, senza scosse. Otto pezzi languidi in minore, otto indizi di un passato che per forza di cose ritorna a ricordarti da dove vieni.

Non so dire se album così possano fare breccia nelle nuove generazioni, e ben poco mi importa.

Perdutamente te ne innamori se ne riconosci i padri.

O semplicemente se è stata questa musica a segnare un’età, un percorso, un tempo della vita che chissà oggi dov’è. (Manuel Maverna)