75 DOLLAR BILL "I was real"
(2019 )
Ricordo l’impatto tremendo al primo ascolto di “Wood/Metal/Plastic/Pattern/Rhythm/Rock” un paio d’anni orsono: quattro lunghe tracce cervellotiche al servizio di una ostentata cerebralità oscillante tra no-wave e sperimentazione tout court. Pattern di chitarra reiterati all’infinito disegnavano partiture che lambivano suggestioni atonali: in parte ti sentivi nel bel mezzo di una jam tra studenti di Berklee, altrove la sensazione era che tutto fosse in realtà premeditato al punto da indurre una sorta di trance estatica fondata sulla ripetizione.
A due anni da quel lavoro sì ingarbugliato e straniante, ma capace di risucchiare nel gorgo mortifero di una elettricità statica e vorticosa, il duo newyorchese formato dal percussionista Rick Brown e dal chitarrista Che Chen torna su Glitterbeat/tak:til con le nove tracce di “I was real”. Alzando o abbassando il tiro, è ardua questione. Sta di fatto che questi sessantotto minuti producono un effetto dirompente.
La loro rimane una musica di estrazione eminentemente colta, figlia di La Monte Young come di certo post-rock di prima generazione, ma in “I was real” compie un passo deciso (avanti? Di lato?) in direzione di forme espressive più riconoscibili e di una scrittura che appare – per quanto possibile – più accomodante e disponibile a compromessi. Il che non significa rinunciare a quella ostinata estrosità contorta, né scendere a patti col pop(olare): soltanto, i riferimenti al già esistente si fanno più marcati ed afferrabili, pur giacendo ancora impaludati nelle sabbie mobili avant che tutto inghiottono.
L’accresciuta comprensibilità del linguaggio ricuce lo strappo e riduce il divario tra la comune sensibilità e quella vaga parvenza di algida spocchia che fungeva da repellente per i non adepti, concedendo indizi per accedere ad un hortus conclusus fino a ieri off limits.
Così perfino i diciassette minuti della title-track – già cavallo di battaglia nei live, dove lievita talvolta fino ad una mezzora – si lasciano godere: hanno un passo felpato e sornione che si insinua come una serpe tra l’erba alta, un graduale crescendo che lievita in modo quasi impercettibile attorno ad un ritmo essenziale dettato dalle maracas e da non più di tre/quattro figure della chitarra. Mi ricorda “Emp. Man’s blues” dei For Carnation: uno scorrere ovattato sempre identico a sé stesso, scosso e modificato solo da minime, impercettibili variazioni sul tema, fino ai tre minuti di outro nei quali – a mo’ di gioco, o di scherzo – vanno in scena piccoli rumori, beffe, echi, riverberi, sempre più prossimi all’inudibile, preludio al silenzio conclusivo.
E soprattutto: i 75 Dollar Bill di oggi non sono più solo in due. Hanno allargato la tavolozza dei colori e si sono affidati al provvidenziale apporto di una nutrita schiera di musicisti, il cui apporto nel disegno complessivo è determinante e provvidenziale. Amplia gli orizzonti, offre vie di fuga, spalanca prospettive, concede alternative.
“Every last coffee or tea” apre allora con undici minuti memori (quasi) dei Yo La Tengo, seguendo un leit-motiv ricorrente per tutto l’album, ossia l’elevazione a modello delle ripetizioni. Sparsi ovunque, esperimenti di musica microtonale (emblematica “WZN4”), sovraincisioni, sottrazioni, sostituzioni, trucchi vari. Ed una ancora più consapevole ricerca di quel movimento che sembrava soffocato dall’insistita teorizzazione della stasi armonica. “Tetuzi Akiyama” è addirittura una sorta di boogie sbilenco; la conclusiva “WNZ3” sembra un blues sfigurato (in realtà è – appunto - WZN, musica originaria della Mauritania); “There’s no such thing as a king bee” è una specie di saltarello. Così, tanto per dire.
Ma il capolavoro è “New new/The worm/Like laundry”, dieci minuti mesmerizzanti che conducono un esperimento sul cambio di tonalità - dall’iniziale RE al conclusivo SI - per il tramite di un drone-chord che per tre minuti funge da raccordo tra la prima e la terza sezione del brano. Musica modulare for the masses? (Manuel Maverna)