BEPPE DETTORI "@90"
(2019 )
La storia travagliata di quest’album è ciò che gli dona fascino: è un salto indietro nel tempo di ventuno anni. Nel 1998 Beppe Dettori, che poi sarebbe diventato la nuova voce dei Tazenda, voleva realizzare un album pop. Ed era stato pure prodotto, quell’anno era tutto pronto. Ma il progetto deragliò, per tante incomprensioni fra i musicisti, e così il disco rimase ibernato per tutto questo tempo. Ora, con l’apertura della nuova etichetta editoriale sarda UNDAS, questa produzione torna alla luce. Le canzoni, scongelate, fanno sentire la cifra stilistica di quegli anni, difatti il disco prende il nome “@90”. Gli arpeggi elettronici nell’arrangiamento di “Sha la la”, la batteria dal leggero groove di “Mentre passa” e quei piccoli arpeggi jingle jangle di chitarra elettrica stile R.E.M. (o primo Ligabue), l’ottimismo di “Starò meglio” e la serenità di “Fermi il tempo”, l’intromissione dell’inglese in un testo in italiano nella ballata “I’m falling down”… tutto suona ed appare pop rock anni ’90. Le parole spesso ritornano sugli stessi temi: determinazione e coraggio nel muoversi e nel cambiare le cose, come in “Sono uscito”: “Girano le cose quando cambi fase”. O in “Quando è ora di andare”, sulla paura di “saltare in avanti e poi trovarsi distante”: “Attimi, soltanto attimi che avrei voluto diventare di vetro, trasparente come l'acqua, vapori in aria, la sensazione di sparire”. Il disco però si apre con “Monnalisa”, cover di Ivan Graziani privata del falsetto. “Mi piace stare qui” è una dedica a una persona cara venuta a mancare, che descrive frammenti di ricordi del posto dove viveva: “Il grande portone, la finestra che chiudeva male, le scale, salivano alla camera, d'inverno, sul prato ghiacciato un sole ostinato passava tra le tavole”. “Rabbia e dolore” è una classica canzone contro la guerra, che si focalizza sui soldati che agiscono senza porsi domande. Ascoltarla a vent’anni di distanza, questa fa pensare tanto, perché anche la guerra è cambiata nel tempo, con l’introduzione dei droni, che permettono di uccidere e bombardare a distanza, senza troppi soldati sul campo di battaglia, quindi senza più nemmeno guardare negli occhi di chi stai sparando. Ma “Tutto il veleno” torna all’amore, con una chitarra acustica delicata e un basso molto in evidenza, che suona come un contrabbasso. L’album si chiude con “Prendo quello che c’è”, perfetto pezzo radiofonico, che però presenta un ponte con accordi non scontati. E così, tra ritornelli orecchiabili da cantare in coro al Festivalbar, aspettiamo il capodanno di questo imminente 1999... (Gilberto Ongaro)