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BOB DYLAN  "The 1975 live recordings: Rolling Thunder Revue"
   (2019 )

Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, il nuovo documentario Netflix di Martin Scorsese sulla Rolling Thunder Revue 1975 di Bob Dylan, è una celebrazione entusiasmante della creatività e del carisma del cantautore, che il regista aveva già tributato con No Direction Home (2005). Per grossa parte documentario, esso contiene anche elementi finzionali che ne giustificano il sottotitolo. A completare l’approfondimento riguardante la Revue ’75 è uscito un box set di 14 CD, The 1975 Live Recordings: Rolling Thunder Revue, che contiene cinque show integrali, tre dischi di rehearsals pre-tour e un disco di performance varie registrate in quello stesso anno.

La Rolling Thunder Revue, carrozzone che Bob Dylan formò radunando intorno a sé musicisti, poeti, registi e attori, durò meno di un anno. All’inizio del documentario, mentre cerca di spiegarne la natura, Dylan dice di non ricordare nulla. Se Dylan non ricorda, o finge di non ricordare, ci sono altri che ricordano bene e, soprattutto, ci sono i documenti – l’audio e i filmati – che nel film e nel box set splendono come diamanti e provano quanto la Revue fu straordinaria. La pubblicazione di Hard Rain (1976), contenente nove brani tratti da show della seconda Thunder, quella del 1976, e il Bootleg Series Vol. 5: Live 1975 (2002), con una selezione di pezzi tratti da show della prima, non avevano certamente esaurito il discorso.

In parallelo, il materiale video tratto dal tour 1975, quasi interamente inedito, fu filmato da Howard Alk e David Meyers in vista di Renaldo & Clara, il film sperimentale a cui Bob Dylan stava lavorando che fu pubblicato nel 1978, e una piccola parte di esso compariva nella pellicola. In vista del documentario, tutto quel materiale è stato restaurato. Gli show si tennero tutti in piccole venues – “non fu un grande successo, se misuriamo il successo in termini di profitto”, dice Dylan nel film – al contrario di quanto era avvenuto insieme a The Band l’anno prima. Nel ’74, infatti, nel primo tour vero e proprio in otto anni, Dylan si era esibito in arene enormi quasi ovunque sold out. Ora, invece, decide di invertire la rotta. Nell’autunno e inverno del 1974 Dylan aveva scritto e registrato Blood on the Tracks, uscito all’inizio del ’75; nell’estate di quell’anno aveva registrato Desire, che sarebbe uscito a inizio ’76; alcuni dei brani che lo compongono, ancora inediti, sarebbero stati eseguiti nella prima Revue. Dylan sta vivendo un’esplosione creativa infuocata e vuole perseguire qualsiasi idea gli passi per la testa. Sceglie piccole sale concerto e costruisce spettacoli molto simili ai medicine shows.

L’influsso delle revues è chiaro sin dal nome del tour. L’aspetto teatrale è evidente e influenza il progetto a tal punto che Dylan stesso, parlando con Larry Sloman, giornalista incaricato per Rolling Stone di seguire il tour ’75, cita come fonte d’ispirazione le compagnie italiane della Commedia dell’Arte. Realtà e finzione sono ingredienti fondamentali di quel tour. Non è un caso che il film inizi con uno spezzone del cortometraggio The Vanishing Lady (1896) di Georges Méliès. Nessuno dice la verità quando non ha indosso una maschera. Questa frase così dylanesque compare agli albori del documentario. Nel ’75 Dylan è sempre mascherato a dovere. Ha il volto dipinto di bianco – a ispirarlo fu la visione del film di Marcel Carné Les Enfants du Paradis – e talvolta, durante il primo pezzo del set, ha una vera e propria maschera che gli copre il viso. Indossa un cappello a tesa larga ornato di fiori. Canta con convinzione e grinta impressionanti, mettendo tutto sé stesso in ogni singola sillaba, in ogni singola nota.

Accanto a lui ci sono i Guam, band da lui stesso assemblata. Aveva bevuto qualche drink a New York con Mick Ronson, direttamente dagli Spider from Mars di David Bowie, e aveva deciso di inserirlo nel progetto. Scarlet Rivera suona il violino per le strade cittadine: Dylan la incontra e non ci pensa due volte a portarla con sé. Rivera avrebbe dato un enorme contributo nella formazione del sound di Desire e di entrambe le Thunder. Dylan ha conosciuto anche Jacques Levy, regista di teatro che scriverà con lui molti dei brani di Desire e lo aiuterà nel mettere in atto il progetto della Revue. C’è Joan Baez, che canta da sola e con Dylan. Allen Ginsberg (per Dylan “l’Oracolo di Delfi”) recita alcune poesie. Ci sono anche Bob Neuwirth, Joni Mitchell, Sam Shepard, Ramblin’ Jack Elliott e Ronee Blakley. Negli States iniziavano i preparativi per le celebrazioni del duecentesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza (1776). La Revue parte da Plymouth, dove i Padri Pellegrini sbarcarono.

A rendere preziosi docufilm e box set sono in primis le performance. Molti dei filmati sono completamente inediti. Dylan interpreta i pezzi visceralmente e la sua gestualità da posseduto non è seconda alla parola poetica. Intervistato in merito al docufilm, Scorsese si sofferma sul fotogramma di una ragazza che piange al termine di uno degli show. Uno degli aspetti che andava preservato, ricorda, è il fatto che qualcosa di così potente possa farci “sentire prima che pensare”. Se qualcosa ti muove, allora qualcosa di magico si è verificato. Magia, di nuovo. Per questo Scorsese sceglie una narrazione discontinua e molteplice, che conserva intatto il mistero che sta dietro a quel tour e a quel gioco di identità e maschere. “La vita non riguarda lo scoprire sé stessi né lo scoprire alcunché”, sostiene Dylan. “La vita riguarda il creare sé stessi”. Questa è la strada che ha intrapreso il trobadour Dylan: così Rubin “Hurricane” Carter definisce il cantautore in un’intervista che compare nel film.

Nella Thunder 1975 non c’è una singola performance che sia anche solo mediocre e il box set ne è la conferma. Le rehearsals del tour, insieme ai Guam, costruiscono lentamente il suono che sarà caratteristico di tutti gli show di quell’anno. Dylan riscopre, rivive, ricrea. Non è solo parola e non è solo musica; nell’essere entrambe le cose – e molto di più – è anche respiro, dizione, approccio. Nessun performer è come lui. Anche le cover e i traditional che canta sembrano brani suoi: Dylan non interpreta solamente ma, come scrive Alessandro Carrera, abita le canzoni, le occupa in ogni loro centimetro quadrato. Dylan compare sul palco tre volte: quando inizia il suo set con “When I Paint My Masterpiece”; quando suona alcuni brani in duetto con Baez; quando, infine, chiude lo show, dopo aver eseguito anche alcuni brani da solo.

Le scalette sono quasi sempre identiche. Dylan aggiunge, sostituisce o alterna alcuni pezzi nel corso del tour e solo talvolta concede rarità. Alcune performance sono registrate in luoghi inusuali, come una “Simple Twist of Fate” con Bob al piano eseguita al Mahjong Parlor di Falmouth. C’è una “Isis” rimaneggiata eseguita a Lowell e c’è una toccante “The Ballad of Ira Hayes”, brano di Peter LaFarge, eseguita in una riserva di nativi americani, che alla fine della performance regalano a Dylan una collana. Una “It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry” eseguita a New York nello show conclusivo del ’75 con Robbie Robertson alla chitarra corre – letteralmente – come un treno. Riusciamo ad ascoltare anche una convincente versione di “Tracks of My Tears” di Smokey Robinson in un motel di Montreal a inizio dicembre.

Le rehearsals pre-tour creano il suono che avrebbe caratterizzato la Revue e ne costruiscono l’atmosfera. Dylan suona al piano “Tonight I’ll Be Staying Here with You” ed esegue alcuni brani di Desire, che prendono forma lentamente. “People Get Ready”, brano di Curtis Mayfield, è cantata con un’energia e un coinvolgimento sinceri. Sono, tuttavia, i cinque show completi, gli unici cinque di quell’anno a essere stati registrati professionalmente, a colpirci dritto al cuore grazie alla poesia che sprigiona da quelle canzoni e al fuoco con i quali Dylan, che pare essere in trance, le vive. La dimensione folk persiste nei brani che Dylan suona da solo e in quelli che esegue in duetto con Baez, mentre l’esplosività e la ferocia dei Guam escono fuori nei numeri più energici e infuocati, che Dylan comanda alla perfezione cantando e muovendosi come un indemoniato. Queste due nature si fondono perfettamente, permettendo anche agli ospiti di integrarsi con maggiore libertà e spontaneità nello spettacolo.

I ricordi che Dylan conserva di quella annata sono immersi in una certa vaghezza. “La Rolling Thunder non fu assolutamente nulla. È qualcosa che è successo 40 anni fa. È successa in un tempo in cui neppure ero nato”, afferma. Ci parla di quanto ami Jack Kerouac, di quanto sia sempre stato un tutt’uno con Baez nonostante alcune difficoltà, di quanto fu amico del pugile nero Rubin Carter, delle circostanze nelle quali compose “Hurricane”, punto focale degli show del ‘75. “Cos’è rimasto della Rolling Thunder? Assolutamente nulla. Cenere”, conclude. La magia, lo spirito e l’atmosfera di quel mitico tour, un unicuum durato pochi mesi soltanto, non venne mai replicata. Soffia ancora nel vento, fino alla nostra memoria, grazie agli audio e ai filmati, lasciandoci il desiderio di voler vedere e ascoltare ancora qualcosa in più. (Samuele Conficoni)