recensioni dischi
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SARA ROMANO  "Saudagorìa"
   (2019 )

L’approccio internazionale della cantautrice Sara Romano mescola suoni americani e scozzesi in canzoni che spesso sono cantate in siciliano, nel suo nuovo album “Saudagorìa”. Il titolo è una parola inventata che unisce la saudade brasiliana al termine “allegoria”. Ogni brano sottende una certa malinconia, forza propulsiva che ad alcune e alcuni permette di scrivere musica. Sonorità prettamente acustiche e delicate aprono il disco con “Nella neve”, basata su un forte desiderio di avere un bambino, che scuota l’esistenza, un figlio che “mi deluda nel rispetto anche in tempo di pace, che mi porti solo in posti dove non sono stata, che mi aiuti a perdonare chi mi ha disarmata. Facciamo un figlio nella neve, questo è tutto, sarà bellissimo vedrai, lirica in un solo atto”. La viola, malinconica e glissante, continua a presenziare nella titletrack, caratterizzata da una melodia che porta Sara nel blues classico. La scelta è dettata dal punto di vista del racconto, quello di un italiano emigrato all’estero. La pedal steel fa da sfondo al saltellio de “La strega”, questa donna ancora additata in questa maniera perché troppo indipendente. Sara ci scherza sopra: “Sul retro coltivavo, lo dico, piante di fortuna; se a San Giovanni parlano gli animali io parlo con la luna (…) Benpensanti, non tacciate la mia mente d'ironica inappetenza, per me le sirene ed il mare sono una scienza”. Con “La genti” iniziano le canzoni in dialetto siciliano. Questa è per la maggior parte del tempo recitata, sono pettegolezzi in siculo, chiusi dal refrain: “Accussì parra la genti”, così parla la gente. Come risposta alle oche che fanno gossip, la viola accende a sorpresa la distorsione elettrica. Continua il viaggio nell’isola con “Cause”, sulla violenza psicologica nei rapporti interpersonali: “Marrugio negli occhi, morti e tradimenti, io ti lasso ma un lu fazzu pì mali, ch’io ti vugghiu beni, però vivo e staiu mali”. Traducibile con: “Bastone negli occhi (inteso come evangelica trave), morti e tradimenti, io ti lascio ma non lo faccio per cattiveria, che io ti voglio bene, però vivo e sto male”. Con “D.A.N.A.” il dialetto incontra una suggestiva atmosfera, quasi onirica, creata da una viola statica. Si torna all’italiano con “Sotto i 35 gradi”, una canzone sul freddo interiore, affrontato con triste ironia: “Galleggio sull'astinenza dell'acqua, sospendo il giudizio e il calore (…) se questo freddo glaciale da me un giorno potesse uscire, rinsalderebbe le calotte polari, forse a qualcosa potrebbe servire, ah, se questo gelo che stringe i miei occhi finalmente li potesse lasciare, la sua scia di vapori d'argento disegnerebbe la strada per poterti riabbaracciare”. Parole insolite per descrivere la fine di un amore in “Piccola”: “Lacrime di carbone bagnato, ma non per questo meno vere”. Il dolore però non lascia spazio a ripensamenti sul passato, mentre la protagonista si ritrova “a guardare una foto ingiallita dal tempo, sfocata da un sospiro di cui io non mi pento”. Sugli arpeggi di chitarra e la viola onnipresente, “Malatempora” è un lamento sugli ideali traditi, nuovamente in siciliano: “La virtù s'inniò a fare l'amuri con la murti”, la virtù andò a fare l’amore con la morte. Ed infine, una melodia tradizionale gaelica, “Sadhbh Nì Bhruineallaigh”, viene ripresa per trasformarsi in “Unni unni”, che narra in siculo di un viaggio verso una meta irraggiungibile, cantata in coro con una voce maschile: “Unni unni, unni è?”, ovvero dove, dove, dov’è? Questa conclusione sembra metafora dell’album stesso, che nel triangolo Sicilia – Stati Uniti – Scozia sembra viaggiare e girare continuamente, senza mai trovare un posto fisso confortante. Forse la dimensione giusta si può trovare ovunque, a prescindere dal nome di una città scritto sul cartello: basta che ci sia la terra, quella vera, ed un legame viscerale ed autentico con essa, corrispondente alla scelta musicale di utilizzare solo strumenti acustici, e per questo “caldi”, affettivi. (Gilberto Ongaro)