recensioni dischi
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CHRISTIAN WINTHER CHRISTENSEN  "Almost in G"
   (2019 )

In Almost in G, appena uscito per la celebre Col Legno Records,, Christian Winther Christensen, voce unica, originale e coraggiosa, gioca con gli strumenti della musica classica per creare qualcosa di profondamente anti-classicistico, sperimentale e contemporaneo, al fine di ribadirci che, per essere strettamente al passo coi tempi, bisogna sì saper guardarsi indietro ma anche non aver paura di innescare qualche rivoluzione.

La prima composizione dell’album, “Almost in G”, divisa in quattro movimenti, prende tanto da John Cage quanto da Ornette Coleman: momenti destabilizzanti, decisamente avant, si mescolano con passaggi sempre sperimentali e ostici ma più incanalabili all’interno del jazz. Segue “Sextet”, un titolo che rimanda sia al mondo della musica classica che a quello degli ensemble jazz e che, come da definizione, riesce a partecipare di entrambi gli universi in maniera curiosa e imprevedibile. Tristi lamentazioni da marcia funebre di New Orleans si connettono con passaggi d’archi classici o d’avanguardia, in un susseguirsi di esperimenti convincenti. Sono gli Scenatet, uno degli ensemble più notevoli e talentuosi d’Europa, a eseguire tutte le composizioni. I tre “movimenti” di “Chorale”, che seguono, pur molto complessi, paiono più accessibili e leggeri, benché il lato percussivo sia ostico e si sentano influenze dello Steve Reich di “Drumming” e fascinazioni inquietanti e minimali che rimandano addirittura a Morton Feldman. Uno “String Trio” che è tutto fuorché classico – di classico ci sono il titolo e gli archi – rimanda ancora ai lavori per archi di John Cage, in particolare alle superbe performance da parte dell’Arditti Quartet, fuori catalogo da ormai molti anni.

“Nachtmusik” inaugura quella che, idealmente, può essere considerata la seconda parte del disco. Nevrotica, spossante e indecifrabile, questa composizione strizza l’occhiolino a tanti compositori di classica contemporanea, da Sciarrino e Boulez (sia lode, sempre); certi passaggi sono massimalisti, altri minimalisti, ed è difficile comprendere di preciso la direzione del pezzo, che risulta in ogni caso drammaticamente pungente. È il momento di “Being Apu Sarkar”, altra composizione abbastanza lunga in un unico movimento, questa per nulla massimalista ma lontana anche da ogni possibile e sicura incarnazione di minimalismo; questa è avanguardia pura, con riferimenti che vanno da Terry Riley a Charlemagne Palestine. “Four Hyper-Realistic Songs”, in quattro movimenti, è la geniale composizione che chiude l’album, con echi di Paul Dresher o addirittura del grande Ligeti. Christensen ci ha convinti, di nuovo. (Samuele Conficoni)