recensioni dischi
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BYE BYE JAPAN  "In the cave"
   (2019 )

Non sarà magari il massimo dell’originalità, ma ha comunque brio, sana verve ed una stilla di dispettosa naturalezza “In the cave”, debutto lungo del quartetto palermitano Bye Bye Japan per la catanese DCave Records di Daniele Grasso, produttore e sound engineer d’eccellenza (Basile, Afterhours, John Parish e via di questo passo).

Impreziosito dalla direzione artistica dello stesso Grasso e ben sostenuto dal timbro stentoreo ed impostato - perfino troppo? Comunque perentorio e solido - della front-woman Kimberly Mangano, l’album infila dieci tracce di buon indie-rock elettrico anni ’90: sebbene la scrittura sacrifichi imprevedibilità per mirare alla definizione del suono, il disco funziona per larghi tratti, soprattutto quando azzarda qualche mossa fuori dal coro.

Ne sono vividi esempi la nervosa opener “Elephant people”, la tirata post-punk à la Siouxsie di “Drifting”, la cadenza cattivella di “Brazzaville” o il tardo grunge allucinato di una “Candle code” chiusa da una interessante coda congestionata e satura. Ma apprezzabili sono anche episodi più allineati: il blues slabbrato à la Sister Double Happiness della title-track, la ballad à la Pretenders di “R-Shine” o l’incedere in stile Hooverphonic della sensuale “Polly Jean Becker”.

Promettente e con ampi margini di manovra, al progetto Bye Bye Japan gioverebbe forse un approccio più ruvido ed istintivo, tale da accrescere impatto e appetibilità dei pezzi: Kimberly bravissima - n'est-ce-pas - , ma mi piacerebbe di più se questa manciata di canzoni sporche le urlasse come Giorgieness, anzichè limitarsi (si fa per dire) a cantare ad alta voce.

Sfumature, questione di appeal: il sound è scolpito – figuriamoci -, il materiale non manca, la passione nemmeno. (Manuel Maverna)