MARCELLO VADORI "Colzano"
(2019 )
Marcello Vadori è un cantautore intimista, affine a Niccolò Fabi e al suo approccio discreto. “Colzano” è un album pieno di suggestioni poetiche, cantate sopra arrangiamenti semplici di chitarra, molto arpeggiati, e spesso accompagnati dagli archi, talvolta dalla fisarmonica, o da flauto e basso tuba, nel caso di una marcia simpatica (“L’uomo col mazzo di fiori”). Importanza centrale rivestono gli otto testi, conditi dai due brevi strumentali “Viba” e “Rio”. La ricchezza lessicale è tale, che ai primi ascolti non si coglie tutto, ci vuole molta attenzione; una volta dentro, si apre un mondo di piccole emozioni. Come in “Grano”, bucolica ambientazione per situazioni tendenti alla purezza: “No, non arrenderti mai ai miei nascondini in mezzo al grano (…) Mi dici adesso che hai capito l'eleganza, soltanto scalzi e impolverati si entra alla festa del mondo”. Alcuni elementi sono ricorrenti, come le scarpe, che tornano in più canzoni, e sono centrali ne “Le scarpe del santo”, dove il punto di vista si alterna fra quello delle scarpe e chi le indossa: “Nascevano dalla schiuma, piene di sabbia e città che avrebbero camminato ma conoscevano già (…) Amano sedie calde le mandibole dei saggi, e gli eroi della ritirata con le vene sotto l'inverno (…) ti sento arrivare, saltellando sulle rovine dell'infelicità. Pane vino legna e lascia venir la neve”. Ogni testo è denso in ogni verso, ed è difficile scegliere degli estratti per definirne la visione globale. “L’asino dell’autunno”, tra le sue parole ermetiche, nasconde qualcosa di doloroso, e Marcello gioca tra l’asino letterale, l’animale, e l’allievo somaro a scuola: “Tirato per la giacca quell'asino dell'autunno, ha rotto il laccio della scarpa al bel tempo. Nessuno capì la sua poesia sulle maniche lunghe, nel crollo anticipato del firmamento (…) E si inventò due occhi di neve ma severi quando si deve (…) Nessuno capì le foglie gialle insanguinate, altri giurarono che la brina fosse pianto (…) E vola sugli insegnanti, oltre i prodigi dei primi banchi, e nel buio della lavagna colora la libertà”. “Il distratto” è un tenero racconto diviso in tre episodi, per il quale scomoderei persino un accostamento con Gianni Rodari, per la sua profondità spiegata ad un bambino. Parte da un grillo rimasto al freddo nella neve, salvato da un distratto che perde un guanto; poi un aspirante ladro viene dissuaso dalla monetina lasciata cadere da un altro distratto. E nella strofa finale, il distratto riesce pure a salvare il mondo. Una perla, da insegnare a educazione civica. Con “Bella età”, ci si focalizza sui quindici anni e sulla notte di Santa Lucia, tra “nebbia e profumo di petardi” e altre allegorie funamboliche come “pesce d’oro in un secchio da imbianchino”. La voce viene inseguita dal violoncello in “Tutto qui”, che ancora riprende il “guanto perso nella neve”, ma anche visioni meno candide: “Mentre la pubblicità pulisce il sangue dalle strade (…) fuochi di filo spinato a guardia di caserme vuote”. Nella citata “L’uomo col mazzo di fiori”, la gente che osserva l’uomo in questione, confabula chiedendosi per cosa siano i fiori: un anniversario, qualcosa da farsi perdonare, una partenza? L’uomo si tiene il proprio mistero. E alla fine la protagonista diventa la concezione del tempo, sconvolta come un’epifania da “Lo stesso giorno”: “Ieri oggi e domani son lo stesso giorno, la bellezza si riconosce ma non si può spiegare. Imparare creare e insegnare son lo stesso verbo”. Un po’ d’amarezza sale, per le dimensioni dell’universo rispetto al nostro mondo di emozioni: “Un fiore non si vede dalla luna (…) le tue grida non commuovono le stelle”. Però la canzone stessa trova la consolazione: “Hai un cuore che sopporta l’intelligenza”, e alla fine tornano le scarpe: “Le scarpe si consumano scappando, o col buonumore”. Davvero fine il pensiero di Vadori, cantautore musicalmente “classico”, ma che non inciampa nei cliché del malinconico esistenzialista, dando serenità allo sguardo, ed all’ascoltatore. (Gilberto Ongaro)