IMURI "Chat hotel"
(2019 )
Fino a più o meno una quindicina d’ anni fa ho vissuto nella ferrea convinzione che un’autentica via italica al pop non esistesse. Cantautori, hip hop, alcune anime disallineate, qualche scheggia impazzita, rock di vario genere. Ma pop del tipo ecco una vera band pop: non pervenuto. Cioè: mi venivano in mente i Matia Bazar, ma già i Quintorigo erano fuori tema.
Poi come per incanto è affiorato alla superficie tanto di quel pop da averne in eccesso. Con parecchie cose allettanti, da Cesare Cremonini in avanti, da Niccolò Contessa ad oggi. Ed è un pop che ha assunto forme e connotati sempre più affini ad un disco-pop leggero anziché bazzicare dalle parti di produzioni più impegnate e impegnative, seppure con eccezioni illustri (Baustelle su tutti).
“Chat hotel”, secondo album per il quartetto abruzzese Imuri su Garrincha Dischi/Manita Dischi, è un esempio luccicante di ottimo pop italiano. Ben scritto e furbetto, melodico quanto basta a non spaventare, mai tanto spinoso da respingere, è abilmente costruito su brani concisi, linee di basso pulsanti, testi che ammiccano alla meglio gioventù e ritornelli che un po’ slogheggiano (cit.), dall’ironia amara de “La mia giornata tipo” al gancio da amarcord di “Tutti in fila indiana”, giù fino alla chiusura scontrosa ed acidella di “Con il culo degli altri”, con un filo di risentimento per mamme e papà.
E’ un piccolo prodigio in cui tutto pare funzionare a meraviglia, proprio perché parla una lingua adatta a farsi capire: “Vieni a fallire con me” è opener programmatica fin dal titolo; “200 sigarette” spende un bel ritornello da Calcutta, mentre “Black koala” centra uno strumentale perfetto á la Calibro 35 che è forse l’episodio migliore del lotto, paradossalmente avulso dal quadro generale. Ha qualche inflessione da Riccardo Sinigallia (“I cosiddetti normali”), puntate arzille nel post-pop del Management del Dolore Post-Operatorio (“Ti sei vestita di nero”) ed una foga addomesticata che fa capolino in rare impennate (“Pagina muta”). Insomma: fa bene ciò che vuole, cosa chiedere di più?
Il limite? Un po’ come abbeverarsi ad acqua di ruscello, deliziosamente fresca, ma non dissetante. “Chat hotel” azzecca buone canzoni, compiute e leggere, dotate del giusto appeal per finire in pasto ai figli del tutto-e-subito, gente da aperitivo che consuma e dimentica, proprio come ti scordi di avere appena bevuto, ché hai già sete un’altra volta.
Ma giova ribadirlo: questo de Imuri - davvero bravi, ça va sans dire - è pop italiano, gente: nessun pezzo è meno che piacevole, nessun pezzo è più che piacevole. Bene così, avanti un altro, che di posto ce n'è. (Manuel Maverna)