IL GIGANTE "La rivolta del perdente"
(2019 )
“Voi dovreste amare di meno, voi dovreste non avere coscienza, voi dovreste sentirvi migliori e morire da coglioni”. Contro questi consigli non richiesti, Il Gigante risponde urlando: “Allora suona tu!”. Così si apre il loro nuovo album “La rivolta del perdente”, uscito per JAP Records. La loro è una miscela di stoner e blues rock, sulla quale una voce graffiata urla rabbiosa, esplorando nei testi il lato spesso sottaciuto delle persone. E’ un grido che reclama la propria umanità, e rifiuta l’omologazione, come in “Pace”: “Il pensiero comune è il pensiero facile, pensa diverso, pensa difficile”. Si riferisce all’attualità più stretta: “Tutto quest'odio represso sta diventando una guerra inutile (…) Questo senso di appartenenza non appartiene più a nessuno”. La direzione critica si sposta verso le paure, con “La notte”: “La notte i pensieri non riesci a gestirli, camminano nudi su giorni passati, e non li fermerai. Le limpide stelle sono ferite di una notte violata dal sonno leggero e non dormirai mai più”. Sembra però che la canzone successiva, “Che sia la fine”, che parla di sopravvivenza, sia la risposta a questa: “Ora sorridi anche con quattro denti, sei sopravvissuto, ora puoi raccontarlo e dormirai libero di sognare, ormai la notte non ti fa più paura”. Le dinamiche si placano con “Nagaraya” per una riflessione interiore: “Se dovessi scegliere non guarderei la città dall'alto, ne vedrei solo la ricchezza, è da dentro che si sente la puzza e si capisce l'essenza”. La canzone lentamente deflagra, con un riff sincopato e la voglia di fuga: “Dove me ne andrò libero”. Ma la titletrack fa da leit motiv all’album: “La rivolta del perdente”, con un suono abrasivo, porta con sé quella flemma grunge, che trascina un popolo che non è disperato ma incerto, e nonostante questo non si piegherà all’arroganza dei nostri tempi, anzi: “Quando tutto sarà silenzio torneremo a respirare”. L’invettiva sonora riparte con “Charlie”, dove le riflessioni sono strillate, si uniscono i due aspetti testuali, quello interiore e l’aggressività: “Come mai per voi c’è solo il bianco e il nero (…) ho come sempre la convinzione di vivere a metà (…) guerrafondai del tutto è lecito, ma aspetta un attimo, ho il mio cervello, e a costo di sputare sangue io lo proteggo!”. La vetta dell’LP si raggiunge con “La camicia di mio padre”, un rock introspettivo che esplode, affiancando i “ricordi stretti in tasca” delle prime strofe con i sassi della seconda metà: “Scaverò tra le macerie con le mie mani nude, ogni sasso che sposto non so dove nasconderlo. Ci riempirò lo zaino, quello con le tasche rotte, così quando sparirò saprete ritrovarmi”. Il titolo sarcastico “Questo è un lento” nasconde una sferzata violenta, ma nel testo c’è ben poca ironia: “Non sono io quello violento, sono io quello che sprofonda, non sono mai stato attento però lo vedi, sono l’unico sveglio”. Il disagio è vomitato anche qui: “Parlo dentro e tutto mi fa male”. Ma con l’ultimo pezzo “Viviamo per non morire mai più”, per un attimo la band ci fa ascoltare arpeggi delicati e batteria soft, mentre “Steso sul prato della vita, mi assale un senso di lucidità”. Anche la voce qui porta meno rancore, ma dopo due minuti ci si rialza dal prato e riparte la corsa: “Guardami ancora e ricordati di me, di quando la notte mi vestiva a lutto. Guarda com'è la mia indifferenza, di fronte al dolore di una sconfitta”. Il finale è lasciato ad un momento più sereno, dove il basso si fa melodico. Strana conclusione, per un album fatto di veemenza e frustrazioni sfogate. Una prova di potenza “La rivolta del perdente”, che difende e prende le parti degli ultimi, come urlato in “Allora suona tu” all’inizio: “Noi siamo blues, noi siamo feccia!”. (Gilberto Ongaro)