recensioni dischi
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BELLADONNA  "No star is ever too far"
   (2019 )

Lo strano caso dei Belladonna non cessa di stupirmi.
Ben più affermato all’estero che in patria, il quintetto romano nasce nel 2005 da un’idea della vocalist Luana Caraffa e del chitarrista Dani Macchi, seguendo da allora un percorso che li ha portati nel corso degli anni a collaborazioni illustri ed alla condivisione di importanti venue internazionali, oltre ad averne consolidato la presenza in opere televisive e cinematografiche, spot e trailer, con tracce appositamente composte per l’occasione: non è casuale o episodica la pubblicazione nel 2017 di “The Belladonna soundscape collection vol.1”, raccolta di 200 tracce strumentali tratte dai cinque album di inediti della band e destinati proprio al cinema.
Quinto lavoro in studio – sesto considerando “The orchestral album” (2016), raccolta di dieci composizioni riarrangiate ed eseguite con membri dell’orchestra di Ennio Morricone, per la direzione di Angelina Yershova - , “No star is ever too far” si muove agile dalle parti di un AOR che svaria tra Heart, Pretenders e Boston con la correzione di velate inflessioni noir ad incupirne talvolta le trame.
Resta incrollabile e schietto nel suo territorio di elezione e fa egregiamente ciò che sa: chitarroni, ritornelloni, ballatone (“The purest of loves”, monumentale) delineano i confini di una musica sempre accessibile, forse priva di grandi sorprese, ma mai vittima di sé stessa. Anzi: resta incalzante, dalla micidiale doppietta d’apertura (“More more more”, “Come, Babylon”) fino al tour-de-force chitarristico che percorre la conclusiva “Rising in love” come una scarica elettrica. Registrate in presa diretta, le canzoni sono figlie non soltanto di un tocco di furbizia e di molto mestiere: esprimono la vivida urgenza di un’attitudine ruvida e passionale svelata in testi efficaci e variegate divagazioni, dalla botta secca di “The Turing sniper” alla veloce “Doomsnight” – quasi i Mission -, passando per la triste melodia dark di “Mengele in disguise” fino alla solennità ariosa di “Astronomer of life” e “Free”, ballate confidenziali, lineari, avvolgenti.
“The black beauty”, intro pianistica in minore e finale rigonfio di pathos, è – in fondo - solo uno dei molti atout di cui questa defilata band dispone per plasmare ogni intuizione in fogge insolitamente ricche di personalità. Un piccolo mistero da coccolare. (Manuel Maverna)