recensioni dischi
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THE CURE  "Faith"
   (1981 )

Probabilmente l’album più omogeneo dei Cure viene realizzato nuovamente (dopo la parentesi del quartetto di “Seventeen seconds”) da una formazione a tre. Il gruppo, rimasto orfano di Matthieu Hartley per le medesime ragioni che spinsero l’allontanamento del primo bassista Michael Dempsey, trovò in Robert Smith il tastierista di turno (oltre ad essere già voce e chitarra), non potendo più rinunciare ad uno strumento divenuto fondamentale nelle musiche Cure. Il trio, capitanato da Robert Smith e dagli illustri gregari Lol Tolhurst e Simon Gallup, prosegue sulla linea del precedente lavoro, enfatizzando, invero, il clima cupo già smaccatamente evidente in “Seventeen seconds”. Nel suo complesso, infatti, “Faith” si deve considerare come l’album dei Cure più rassegnato, riflessivo e, inevitabilmente, tetro e pessimista. Queste caratteristiche non devono però trarre in inganno. “Faith” è un album unico, dove la linearità diventa un punto di forza e non una mancanza del lavoro, ben potendo l’appassionato notare ed intravedere un minimo comun denominatore nella terza fatica discografica della banda Smith: la rassegnazione, tanto evidente nelle musiche quanto nelle liriche. Ed il clima di profonda oscurità lo si respira già dalla copertina, dove una chiesa sfocata domina in primo piano, quasi ad anticipare all’ascoltatore momenti fatti di meditazione e di ritmi rallentati, all’interno di un mesto raccoglimento. È “Holy hour” che apre il lavoro: l’ora della preghiera, attraverso la sua atmosfera ed il suo lento incedere, sono, più che una grande presentazione dell’intero album, un’anticipazione quasi mormorata in una chiesa. “Pimary”, invece, è l’elemento di rottura di “Faith”; la chitarra insistente di Smith e l’ossessionante gioco batteria/basso della coppia Gallup-Tolhurst, ricuperano una grinta, una forza ed un ritmo del tutto estranei alle altre canzoni dell’album (fatta l’eccezione, forse, di “Doubt”). I tre componenti precisamente amalgamati, la pace che promana dagli strumenti, la mancanza di accelerazioni e la voce di Robert Smith in sottofondo e monocorde, accomunano “Other voices”, “All cats are grey”, “The funeral party”, quali canzoni che individuano alla perfezione “Faith”. L’album, volgendo verso il termine, ci regala “Doubt” e “The drowning man” (che ritorna al clima rassegnato di “Faith”), ma soprattutto il brano che dà il titolo all’intero lavoro. L’ultima canzone è, infatti, il punto più alto di “Faith”, con una forza, un’energia ed un’intensità straordinarie, che risultano tanto più sorprendenti, quanto più il brano si presenta uniforme e costante nel suo sound. Quest’ultimo pezzo rappresenta, inoltre, una delle canzoni più sentite dal leader, che, per evitare di commuoversi eccessivamente durante le prove dal vivo, aspettò almeno un lustro per riproporre il brano durante i concerti. “Catch me if I fall I’m loosing hold” mormora Robert Smith che mette a nudo tutte le sue (nostre) paure e… “mentre la festa continua, non rimane che andarcene via senza nessuno, con solo la fede… con solo la fede”. Originariamente, solo nel formato cassetta, l’album comprendeva anche l’eccezionale suite strumentale “Carnage Visors”. Una composizione (una sorta di alter ego dark delle sinfonie psichedeliche dei primi Pink Floyd), che il gruppo realizzò come colonna sonora per il film omonimo; un cortometraggio astratto e di animazione che realizzato da Ric Gallup (fratello di Simon), veniva proiettato prima dell’entrata in scena dei Cure, durante i concerti del 'Faith tour'. La copertina del singolo “Primary” fu disegnata da Porl Thompson, destinato e diventare (come peraltro già fu prima della costituzione della band) un elemento fondamentale nella storia Cure. (Gianmario Mattacheo)